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 2011  giugno 17 Venerdì calendario

LE NUOVE LIALA UCCIDONO IL ROMANZO

Una sera di molti anni fa Biagio Marin, a Grado, stava fotografando un tramonto. Una bambina, passandogli vicino, gli disse: «No se fotografa i nùoli (le nuvole), se fotografa le persone! » . Al che lui rispose: «Ma mi, satu (sai), son un poeta» . E la bambina, con un cenno di allegro diniego: «Ma va! I poeti xè morti!» . Forse la bambina aveva più ragione di quanto potesse rendersene conto e la letteratura appartiene alla morte in un senso profondo; è, in un certo modo, sempre «postuma» , arriva «dopo la fine» , come dice il titolo di un affascinante saggio di Giulio Ferroni, apparso nel 1996 (Einaudi) e ripubblicato con varie aggiunte alcuni mesi fa, nel 2010 (Donzelli). Ferroni è uno studioso di letteratura italiana, cui si devono saggi che spaziano da Machiavelli al Novecento, dall’Aretino ai contemporanei, dall’analisi del comico a una Storia della letteratura italiana; saggi che colgono nei testi, con grande acutezza, il volto del mondo e del suo divenire, il rapporto dell’opera e del suo linguaggio con le trasformazioni del costume, dei valori, della politica, della tecnologia. Dopo la fine è duplice. Da un lato analizza quel «dopo» assoluto, quella condizione postuma che caratterizza in sé la letteratura, il racconto dei fatti che viene dopo i fatti. Troia è già caduta quando Omero inizia a cantare la sua fine; Ismaele, il personaggio narratore di Moby Dick, narra la storia della caccia alla balena bianca quando il grande sudario del mare si è già chiuso sul naufragio della nave e di tutti i suoi uomini. D’altro canto il libro è anche un ritratto— amaro e oggettivo, mai nostalgico né apocalittico — dell’involuzione che è avvenuta e sta avvenendo nella nostra cultura. Nel tuo libro— gli dico incontrandolo a Roma— fai molti esempi di questo carattere necessariamente postumo della letteratura. Ma non credi possa esistere anche una letteratura tutta risolta nel presente, che si brucia insieme all’attimo, dicendo la struggente verità di questo consumarsi della vita? Presso i samoiedi era vietato perfino ritenere a memoria i canti che lo sciamano intonava nell’ebbrezza, perché essi dovevano dissolversi con la voce che li intonava, esprimendo così la verità della vita che si consuma. Anche molte avanguardie hanno cercato qualcosa di simile. Ferroni— Credo che ci sia una sfasatura inevitabile tra la volontà di vita che si affida alla letteratura e il fatto che la letteratura si rivolge al «dopo» , ad una possibile persistenza al di là dell’esaurirsi della vita presente. Molte avanguardie hanno cercato di saltare questa sfasatura, di negare ogni mediazione, sotto il segno di un vitalismo esasperato o di una aspirazione a qualche purezza originaria; e hanno dato voce ad un’immediatezza bruciante o evanescente. Ma ci hanno lasciato testi che noi ci troviamo a considerare da dopo, vi troviamo tracce di memoria, di esperienze che ci parlano ancora come «postume» . Di simili aporie dell’avanguardia si parlava qualche decennio fa (ricordo saggi formidabili di Enzensberger e di Fortini, ma anche le considerazioni di Sanguineti sul rapporto tra avanguardia e «museo» ). Ma in fondo, a meno che venga subito a cancellarsi, ogni letteratura (e direi ogni forma artistica) vive nel paradosso tra il voler dare voce al presente (al di là degli stessi limiti del linguaggio) e l’offrirsi a dopo, a quando quel presente non sarà più. Magris — Tu citi il celebre verso di Eliot, in my beginning is my end, nel mio principio è la mia fine, ma si potrebbe forse capovolgerlo. La più grande narrativa novecentesca è esplosa, con incredibile vitalità e creativa originalità, sulla e dalla fine del grande romanzo ottocentesco, le cui rovine sono diventate il punto di partenza per una nuova, vitale epica, che — disgregando se stessa, l’ordine temporale, l’unità psicologica, il realismo formale, l’armonia compositiva — permette di afferrare e cogliere la verità del l’epoca e dell’uomo, la nostra frastagliata verità. Se invece si fa finta che quella morte non sia avvenuta, che quel naufragio non sia una necessità epocale, e si continua o si riprende a scrivere romanzi «ben fatti» come se niente fosse successo, allora sì che si corre il rischio di riscrivere i romanzi di Liala, come Sanguineti e gli autori del Gruppo 63 dicevano ingiustamente di Cassola. Ferroni— È vero che proprio dalla morte del romanzo tradizionale, dall’estendersi di quel «senso della fine» che Frank Kermode ha visto agire in tutta la tradizione occidentale, è scaturita una grande narrativa che, a partire dal primo Novecento, ha tratto alla luce la verità di un mondo in cui sono venute meno le grandi certezze sulla condizione umana, sul senso e la continuità dell’essere sociale e della storia. Nella tua opera critica tu hai dato tante penetranti indicazioni su questa letteratura della fine, specie nell’orizzonte mitteleuropeo a cui pienamente appartieni come italiano di Trieste e come narratore (Alla cieca, del resto, è proprio un romanzo del «dopo» , per i suoi temi e per la sua struttura). Va da sé che l’attuale moltiplicarsi di romanzi «ben fatti» o fintamente provocatori riguarda solo il più esteriore consumo culturale: oggi imperversano tante Liale postmoderne. Magris — Non c’è il pericolo di scambiare questo «dopo» , ossia la fine della grande civiltà borghese, con le sue tensioni, le sue utopie, le sue catastrofi, con quella stanca o irresponsabilmente giuliva convinzione che la Storia, come è stato detto, sia finita, che lo stadio attuale (politico, culturale, morale, economico, artistico) delle cose sia definitivo, immutabile? Tu denunci infatti, con l’acutezza del critico e il valor civile del cittadino eticamente responsabile, un’implosione di tutti i valori, un allentamento delle tensioni politiche e morali, un indecente cocktail in cui tutto è irrilevante ed eccezionale nello stesso tempo, in cui trionfa una convertibilità di ogni cosa in ogni altra che investe la stessa persona umana e in cui cade ogni distinzione tra zapping di sciocchezze, arte, pubblicità, imbonimento, escort e reliquie di Padre Pio. Viviamo nella società dell’indifferenza e del l’insignificanza, descritta già anni fa genialmente da Nashville, il film di Altman. Non ci troviamo dunque piuttosto in una condizione di attesa, non dopo bensì prima di una (nuova) civiltà? Siamo forse non solo postumi, ma anche nascituri? Ferroni — Non possiamo certo sapere se, al di là dell’effetto di disgregazione e di insignificanza in cui precipita la società della comunicazione, stia nascendo una nuova dimensione di civiltà, o se il mondo vada verso una dissoluzione che, purtroppo, non riguarda solo le forme culturali, ma l’intero orizzonte vitale. Le società umane stanno correndo verso una radicale alterazione dell’ambiente e verso una dilapidazione delle risorse naturali: ciò può portare davvero alla fine della vita del pianeta. La politica, l’economia, la comunicazione non fanno nulla per porre argine a tutto ciò, tra conflitti ed emergenze che lasciano libero campo ad uno sviluppo distruttivo. Credo che per «salvare» l’umanità ci sarebbe davvero bisogno della nascita di una nuova civiltà «responsabile» , che si collochi «dopo» l’attuale follia della politica, dell’economia, della comunicazione, facendoci uscire dall’illusione dell’infinita espansione della produzione e del consumo. Magris — Scrivere o addirittura vivere dopo la fine può essere anche un rifugio, un modo di sottrarsi alla bruciante realtà, che è così dura, feroce, che impone di lottare, vincere, ed essere felici e ferisce acremente per il fallimento di questa lotta. Non a caso Svevo ha celebrato ironicamente la vecchiaia come stagione del «dopo» , in cui paradossalmente si può godere la vita proprio perché si è esclusi dal gioco e si ha il diritto di essere inetti e deboli, si è liberi dal doloroso, inesorabile dovere di essere forti e vittoriosi… Ferroni — Guardare le cose da lontano può dare una sorta di fredda tranquillità, può far credere che tutto sia stato già consumato. Lo sguardo autobiografico si muove talvolta in questo orizzonte, anche se troppe autobiografie che si pubblicano in questi anni sembrano spesso risolversi in stucchevoli autocelebrazioni politico-intellettuali (ancora un modo di porsi come «vittoriosi» , cosa ben diversa da quella tarda «letteraturizzazione» dell’esistenza messa in campo da Svevo). A tal proposito ho apprezzato il tuo monologo teatrale Essere già stati, che dà voce all’ambigua felicità di uno sguardo alla vita da dopo, di un collocarsi all’epilogo, come punto risolutivo dell’esperienza e della scrittura, vera e propria «eredità» della Mitteleuropa. Mi fa ricordare che Pirandello chiamò «epiloghi» i suoi atti unici teatrali, mentre Corrado Alvaro intitolò una sua autobiografia Tutto è accaduto. Io penso da tempo a un libro su epiloghi e finali letterari: ma non so se arriverò mai a firmarne l’epilogo. Magris — Tu sottolinei un’affascinante relazione tra il «postumo» e l’incompiuto. La grande arte nata «dopo» quella ottocentesca è, nella sua tensione impossibile verso la totalità, inevitabilmente incompiuta come ad esempio il romanzo di Musil. Ma proprio questa frammentarietà può afferrare ed esaltare l’attimo, l’istante vissuto a fondo nella sua pienezza anziché bruciato nella smaniosa ricerca del nuovo, di qualcosa d’altro. È la persuasione di Michelstaedter, la felicità di fare e non l’ansiosa smania di aver già fatto, come Pergolesi, di cui egli celebra lo Stabat Mater quale opera che arde tutta della propria fiamma, composta a qualche mese dalla morte non con l’assillo di finirla, ma nella felicità di crearla. Ferroni — Il senso della fine non può prescindere dalla verifica de l l a frammentarietà e dall’insufficienza dell’esperienza: l’incompiuto, che irrompe già con la letteratura romantica, come forma interna delle opere, agisce perfino entro gli esiti dei grandi artisti che più ci sembrano aver realizzato un sogno di totalità, che si sono votati all’inseguimento senza fine di opere, magari tutte singolarmente compiute, ma succedutesi l’una all’altra in un vortice, in una promessa di felicità senza respiro, come una sfida alla finitudine della condizione umana. Così ci appare oggi la breve vita e l’opera immensa di uno dei più grandi di tutti i tempi, Wolfgang Amadeus Mozart: totalità e incompiutezza, fragilità e potenza, bellezza snidata in un presente che l’artista non ha quasi avuto il tempo di afferrare, in fondo tutta votata al proprio essere «dopo» .
Claudio Magris