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 2011  giugno 17 Venerdì calendario

COLOMBO E L’ETERNO RITORNO DELLE LOGGE: «SULLA POLITICA IL PESO LETALE DEI RICATTI» —

Le varie «P3» e «P4» come la vera loggia P2 di 30 anni fa? «Chiamarlo sottobosco della politica a mio avviso sarebbe far torto alla politica. Anche se certe volte ti viene il sospetto che la politica di questo Paese possa funzionare in questo modo. E cioè a forza di ricatti» . Il vezzo giornalistico, l’anno scorso per l’inchiesta romana come ora per quella napoletana, le sta battezzando «P3» e «P4» per pigra analogia con l’intreccio opaco di poteri disvelato nel 1981 dalla scoperta degli aderenti alla loggia massonica di Licio Gelli «Propaganda 2» . Non è un’usurpazione ma nemmeno un paragone del tutto azzeccato secondo il magistrato che all’epoca scoprì la vera P2 insieme al collega Giuliano Turone: Gherardo Colombo, poi pm di Mani pulite, dimessosi 4 anni fa da giudice di Cassazione per concentrarsi sull’educazione alla legalità di giovani nelle scuole, nelle parrocchie e nelle associazioni. Da ex toga non gli va oggi di commentare il merito di indagini «che conosco solo dai giornali» , né vuole atteggiarsi a grillo parlante in stile «io l’avevo detto» . Ma in effetti Colombo, in libri e interviste già 13 anni fa, aveva detto ciò che ora sembra inverarsi: «Gli accordi sottobanco trovano forza nelle cose non scoperte» , ed è così che «nel metabolismo politico-sociale del Paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili» . Nel caso della P2, ad esempio, «io non so che uso ne facesse, ma era in possesso di notizie riservate o segrete, idonee a condizionare le persone e forse anche le istituzioni» . E oggi anche? «È possibile. Specie quando i nominativi ricorrono» , è la prudente risposta che indirettamente evoca la figura di Luigi Bisignani, che Colombo trovò nell’indagine sulla P2 e ritrovò una dozzina d’anni dopo anche nell’inchiesta su una parte (riciclata nella banca vaticana) della maxitangente Enimont, costatagli infine 2 anni e 6 mesi in Cassazione nel 1998: «Ricordo che quando nel 1993 chiesi la sua cattura e il gip la autorizzò, lui si trovava in Gran Bretagna: Scotland Yard disse di aver bussato alla porta senza averlo trovato, e se ne andò...» . Il paragone con la P2 non disturba l’ex pm, «anzi il fatto che venga riproposta alla memoria la vicenda della loggia P2, tra le più rilevanti per questo Paese, trovo sia un fatto positivo» . Però non lo convince del tutto: «È molto difficile fare dei confronti tra le vicende più recenti e la scoperta allora di una organizzazione così vasta e capillare come quella: basti pensare che, solo per fare qualche esempio, trovammo a farne parte capi dei servizi segreti che avevano depistato le indagini sulle stragi, comandanti delle forze dell’ordine e dell’esercito, uno dei triumviri argentini, il banchiere Sindona che aveva fatto assassinare l’avvocato Ambrosoli, il banchiere Calvi che sarebbe poi stato trovato impiccato sotto un ponte a Londra, il giornalista Pecorelli che era stato ucciso e non si sa ancora da chi. Quando andammo dal presidente del Consiglio Forlani a portargli le liste P2, venne ad aprirci uno il cui nome compariva nelle liste P2...» . Non che oggi manchino personaggi dal ruolo ufficiale apparentemente non eclatante ma accreditati di una enorme influenza concreta: con l’aggiunta, più mortificante perché recidiva dopo l’esperienza della P2, della partecipazione a pieno regime di esponenti di spicco della magistratura a queste lobby di potere e ricatti. Colombo non se ne meraviglia, incasellandola in una delle tante aspettative deluse dopo il 1992-1993: «La nostra inchiesta Mani pulite ha fatto emergere la corruzione, ha mostrato fatti incontrovertibili, ma come risultati sanzionatori ha poi confermato l’impunità che c’era prima: oltre al gran numero di patteggiamenti, e per la verità poi anche di prescrizioni, cosa cambiò infatti? Niente: quasi solo leggi dopo le quali ciò che era reato non era più reato, e ciò che era prova non era più prova. E allora — e sto parlando in generale, non dei casi di questi giorni — in un Paese nel quale la devianza è rimasta così frequente a tutti i livelli, anche nella magistratura continuano a esistere persone che seguono il modo di intendere generale» . Fresco di un dibattito sulla questione morale, Colombo ha in testa un passaggio del discorso di Enrico Berlinguer nel 1984 nel quale l’allora segretario del Pci lamentava che un credito bancario, un’autorizzazione amministrativa, un appalto o una cattedra venissero concessi solo se propiziavano vantaggi a una clientela o permettevano di non temere di non riceverne più: forse che a quel catalogo di esempi si debbano oggi aggiungere anche una sentenza, una indagine, una soffiata, una informazione giudiziaria privilegiata o neutralizzata? «Esiste una questione deontologica che a volte si trasforma anche in questione giudiziaria» , ragiona Colombo, convinto che «bisognerebbe prestare molta più attenzione a evitare i rischi di una autotutela della corporazione» , ma anche che sia fondamentale «fare delle distinzioni. È vero che ci sono magistrati che per quieto vivere o per ambizione sono disposti, anche senza accorgersene, a dimensionare il senso della propria indipendenza; ma ci sono anche altri magistrati che hanno ben presente quale sia l’importanza del senso della propria indipendenza. E generalmente sono proprio quelli che, appena si imbattono in accertamenti su persone rivestite di qualche potere, vengono indicati come "i devianti", quando invece proprio loro sono "gli osservanti"» . Colpisce anche Colombo il fatto che molti dei magistrati assurti alle cronache nell’ultimo anno e mezzo, per ipotesi di gravi reati o anche solo per comportamenti neanche lontanamente compatibili con il loro statuto professionale, siano toghe passate alla politica. «Io su questo ho una mia convinzione che prescinde dalle leggi e dalle regole scritte, e fa invece riferimento a una questione di opportunità. Per me, se un magistrato intende darsi alla politica, dovrebbe rispettare almeno due condizioni. Primo: dovrebbe lasciare passare una quantità di tempo di una certa consistenza tra la fine dell’esercizio delle funzioni giudiziarie e il passaggio all’esercizio delle funzioni politiche. Secondo: la sua scelta dovrebbe essere a quel punto senza ritorno, deve dimettersi dalla magistratura, non deve poter tornare indietro, non può mettersi in aspettativa e poi magari rientrare in magistratura quando sia finito l’incarico politico. Altrimenti, indipendentemente dalla sua buona fede e dalla capacità di mantenere la propria indipendenza, oggettivamente finirebbe per perdere credibilità la sua funzione giudiziaria» .
Luigi Ferrarella