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 2011  giugno 17 Venerdì calendario

LE MANI SUGLI ACQUEDOTTI

Il primo ad avere aperto le danze è il sindaco di Torino, Piero Fassino. Quasi in contemporanea si è iniziato a muovere il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. Obiettivo di entrambi: mettere in moto un robusto spoil system in tutte le società pubbliche controllate. Con un particolare: piazzare nei vari consigli di amministrazione delle controllate del Comune di Torino e della Regione Puglia uomini politici del loro schieramento più o meno freschi di nomina.
In Puglia la Corte Costituzionale ha infatti bocciato la norma con cui la Regione aveva allargato il proprio consiglio da 70 a 78 eletti. Così otto consiglieri votati dai pugliesi poco più di un anno fa si sono trovati all’improvviso senza poltrona, e l’idea di Vendola è quella di risarcirli trasformandoli con un colpo di bacchetta magica in manager da fare sedere in seno al consiglio dell’Acquedotto pugliese appena trasformato in ente pubblico o di altri enti pubblici e società controllate.

A Torino invece il problema è assai più semplice: molti neoeletti che hanno seguito Fassino nel trionfo alle recenti amministrative hanno scoperto una volta arrivati in consiglio che indennità e gettoni di presenza offrono ormai uno stipendio magretto. Così hanno chiesto al loro sindaco di lasciare l’incarico elettivo per essere nominati nel consiglio di alcune delle più importanti municipalizzate che hanno vertici in scadenza. L’idea sembra essere piaciuta a Fassino perché così il neo-sindaco riuscirebbe a prendere due piccioni con una fava: potrebbe nominare nelle società controllate fedelissimi e allo stesso tempo liberare posti per consiglieri non eletti a cui lui teneva in modo particolare. Potrebbe entrare così nel consiglio comunale di Torino l’ex craxiano Giusy La Ganga, che Fassino ha recuperato e l’elettorato di centrosinistra bocciato.
La casta politica che si riprende in mano le municipalizzate piazzando politici trombati o in cerca di fortuna ha in Fassino e Vendola solo i due amministratori più lesti, non l’eccezione. Presto sarà la regola. Perché fino a domenica scorsa quel che sta avvenendo a Torino e Bari sarebbe stato impossibile. Era in vigore un regolamento che stabiliva l’incompatibilità per almeno tre anni fra cariche elettive negli enti locali e consigli direttivi o di amministrazione di enti pubblici o società controllati dagli stessi enti locali.
In pratica un consigliere comunale o provinciale o regionale non poteva essere nominato nel consiglio di amministrazione di una società comunale, provinciale o regionale a meno che non fossero trascorsi tre anni dalla fine del proprio mandato politico. Quel regolamento però è decaduto lo scorso week end grazie al referendum sui servizi pubblici locali. Era infatti stati varato sulla base di una delega al governo concessa da un comma di quell’articolo 23 bis (la cosiddetta legge Ronchi) che gli italiani hanno abrogato dicendo sì a un referendum impropriamente definito “sull’acqua pubblica”. Abrogato l’articolo non hanno più fondamento nella norma primaria nemmeno i regolamenti successivamente emanati.

E così abbiamo la più incredibile beffa: quel vento anti-politica e anti-casta soffiato nelle urne referendarie senza nemmeno saperlo (nessuno l’ha fatto presente prima del voto), ha fatto un regalo straordinario alla casta più invisa, quella dei politici. Perché ora politici trombati o in cerca di facile guadagno torneranno ad occupare come un tempo le municipalizzate pensando più che al bene comune alle proprie privatissime tasche. La calata dei cosacchi nelle società idriche, come in quelle di trasporto pubblico locale, energetiche, dei rifiuti e così via inizia capitanata da Fassino e Vendola, ma presto ci sarà ben poca differenza fra destra e sinistra.
Secondo uno studio riservato in mano all’Anci e alla presidenza del Consiglio dei ministri, la più probabile evoluzione dei servizi pubblici dopo il referendum sarà quella della gestione in house degli stessi. È stato simulata la costituzione di circa 30 mila società in house dei vari enti locali per la gestione dei servizi e un costo complessivo annuo di 15 miliardi di euro per la sola organizzazione dei loro consigli direttivi. Quindici miliardi di euro che naturalmente peserebbero tutti sui bilanci degli enti locali, visto che non potranno a norma di referendum più essere condivisi con soci privati. Così proprio mentre sta tornando di moda nel centrodestra come nel centrosinistra l’idea di tagliare i costi della politica, in realtà questi stanno per lievitare in modo considerevole: quei 15 miliardi sono pari al costo della intera riforma delle aliquote Irpef. Una soluzione d’emergenza però ci sarebbe: stabilire in un decreto collegato alla finanziaria che fra poco sarà varata l’abolizione di ogni indennità per la partecipazione ai consigli di società pubbliche locali, prevedendo solo un rimborso spesa e il pagamento di un minimo gettone di presenza. Almeno i politici trombati- come sarebbe giusto- saranno costretti a trovarsi un altro lavoro non a spese del contribuente.