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 2011  giugno 16 Giovedì calendario

“La nostra odissea con una pecora” - Non solo grida, non solo lacrime di gioia e di sollievo all’alba sul molo di Lampedusa

“La nostra odissea con una pecora” - Non solo grida, non solo lacrime di gioia e di sollievo all’alba sul molo di Lampedusa. Ma anche un belato, prima sottile, poi più forte, infine imperioso. Come dire: «Ce l’ho fatta anch’io». Sorridono gli uomini della Guardia di finanza quando si avvicinano alla barca, 10 metri di legno appena ritinteggiati per affrontare la traversata. Perché accanto ai 12 uomini, alle sei donne e a un bambino di nove anni, tutti tunisini, vedono lei, la pecora. Bianca, riccioluta, discretamente puzzolente ed extracomunitaria tanto quanto gli altri occupanti della carretta. Una riserva di latte fresco per il piccolo migrante. Entra nel porto lo strano quadretto, con le 19 teste che fanno capolino dalla chiglia, le mani in segno di vittoria e due trionfali orecchie. «C’è una pecora a bordo», scandiscono i soccorritori alla centrale in porto. «Una… cosa?». «Una pecora». Già, anche questo succede nell’isola che è crocevia del mondo, passaggio di due continenti, approdo di gente mossa dalla spinta irrefrenabile della fame, della terra, dei figli. Quarantamila immigrati sono arrivati dal Big Bang del mondo arabo. Si è visto di tutto su questo molo, dove ancora una volta tornano a brillare al sole le coperte termiche, offerte a corpi provati da giorni di mare: giovani decisi a tentare la fortuna nel vasto mondo, donne sul punto di partorire, perfino un cieco ottantenne al seguito della famiglia. Pure un cagnolino - ricorda qualcuno - attaccato al suo piccolo proprietario che non ne aveva voluto sapere di lasciarlo a casa. Ma una pecora, quella mai. Sembra una favola di Esopo, o un racconto della Bibbia. Ma questo è Lampedusa, un pezzo di terra che appartiene al mito, non alla storia. «Un’isola per viaggiatori della vita», commenta sul molo Paola La Rosa, avvocato palermitano fuggito fin qui come tanti professionisti pentiti, mentre osserva la nave Flaminia che imbarca un altro carico di mille migranti, tutti arrivati nei giorni scorsi. «La pecora? Se la sono portata dietro per sfamare il bambino con il suo latte durante i giorni in mare, in Africa è una risorsa preziosa», spiegano i soccorritori. Una polizza assicurativa ante litteram. Certo, un tesoro da non lasciare a casa. Più improbabile la goliardata ipotizzata da alcuni operatori umanitari mobilitati all’arrivo della carretta, poco più di un sbarco di famiglia a confronto delle maree umane che si precipitano qui dalla Libia. Gli ultimi 290 sbarcati martedì. In entrambi i casi, fai-da-te o viaggio organizzato, la formula è tutto compreso: rischio, sofferenza, pochissima acqua, cibo niente o quasi. «La pecora me l’ha regalata mia madre per festeggiare l’arrivo sull’isola», racconta uno dei migranti, con il sorriso arabo di chi prende in giro. «Voglio portarla con me, non potete togliermela», protesta, mentre lo fanno salire sulla camionetta diretta al Centro di identificazione ed espulsione. Già la scorsa settimana era stato rispedito in Tunisia, uno della schiera di chi non si arrende. C’è chi prova sei, sette, otto volte, come alla roulette. Sfortunati tutti, ma la pecora di più. Perché uomini, donne e bambino finiscono nella lista dei migranti da riportare a casa, come da accordi con la Tunisia. L’ovicaprino, così lo chiamano, invece viene avviato alla soluzione finale. «Soppresso, non c’è altra scelta: la legge è chiara nel caso di animali importati illegalmente. Non possiamo rimpatriarlo e nemmeno tenerlo», dice Pietro Bartolo, il responsabile del poliambulatorio che tutto ha fatto in questi mesi: far partorire le donne, soccorrere i tunisini che inghiottono lamette da barba per protestare contro i rimpatri, chiudere gli occhi ai morti. Ma che ieri si è trovato di fronte alla pecora, rimasta in barca nell’attesa di una soluzione. Che infine si è materializzata in un veterinario di passaggio a Lampedusa per controlli sanitari di routine: è arrivato sul molo e se l’è portata via, con la corda al collo, mentre l’Asl di Palermo inviava due uomini di rinforzo. Se avesse avuto testa, l’animale, si sarebbe illuso di farcela, guardando quella presenza amorevole che prima è andata a prelevarla e poi le ha fatto un prelievo di sangue per scoprire se avesse l’afta epizootica. Gli esami non servivano a farla stare meglio, ma per fare scattare eventuali misure di disinfestazione. La barca per precauzione è stata sigillata, tutti i migranti sottoposti a misure di sicurezza sanitaria, isolati dagli altri. Lei, la pecora, è finita male, come tanti uomini mai riusciti ad arrivare su questa terra.