Maria Grazia Giannichedda, il manifesto 15/6/2011, 15 giugno 2011
LO SCANDALO DEGLI OPG
Solo la Commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale e i Presidenti della Repubblica e del Senato avevano visto integralmente il filmato di mezz’ora che il 9 giugno ha aperto il convegno sugli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) ed è rimbalzato in quasi tutti i telegiornali della sera. Corpi sformati, persone disperate, spazi angusti, gabinetti rotti, letti di contenzione, storie di soprusi e violenza, non raramente di morte fisica, sempre di incuria e morte civile: le visite a sorpresa negli Opg, effettuate nei mesi scorsi dalla Commissione presieduta da Ignazio Marino, hanno documentato una situazione atroce e nota. Infatti c’era tensione palpabile ma nessuna sorpresa nel pubblico convocato a Palazzo Giustiniani, un centinaio di addetti ai lavori tra responsabili sanitari e penitenziari degli Opg, giudici di sorveglianza, dirigenti di dipartimenti di salute mentale e dell’amministrazione penitenziaria, esponenti di quel mondo associativo che da decenni presidia la questione Opg e da qualche mese ha aperto una nuova campagna per l’abolizione di questi istituti (www.stopopg.it).
Alla fine del lungo dibattito, un’ovvia unanimità su alcuni punti: chiudere questi Opg, intervenire sui canali che li alimentano, utilizzare gli strumenti giuridici e le risorse da tempo disponibili per ricollocare all’esterno la gran parte delle persone internate e prendersi cura di loro. Era però assai difficile allontanare la sensazione che oggi nessuna autorità, dai ministri di sanità e giustizia agli assessori regionali (tutti assenti), abbia la volontà e la forza di rendere meno intollerabile, nel nostro paese, la distanza tra ciò che le leggi consentono e prescrivono e ciò che le istituzioni pubbliche fanno e non fanno. Per questo è così importante far uscire la questione Opg dalle stanze degli addetti e includerla nell’agenda che i cittadini devono costruire sia per cambiare il governo che per cambiare la cultura di gran parte della classe politica su questioni che riguardano le libertà di tutti e i fondamenti della democrazia anche se toccano gruppi ristretti e istituzioni marginali.
Gli opg sono sei (a Castiglione delle Siviere, vicino a Mantova, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli e Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina) e ci sono più di 1500 persone internate. Mai negli ultimi trent’anni era stata raggiunta questa cifra, anzi per tutti gli anni’90 gli internati erano stati meno di 1000. La crescita attuale è l’esito di diversi fattori: nasce certo dalle politiche recenti di crescita della carcerazione da un lato e impoverimento dei servizi sanitari e sociali dall’altro, ma è anche il frutto dell’aver lasciato a se stesso, com’è nel costume politico italiano, il processo di riforma degli Opg messo in opera sia dalla Corte Costituzionale che da diversi decreti di attuazione delle norme sul Servizio sanitario nazionale. Con una ventina di sentenze emesse in gran parte dopo la legge 180, la Consulta ha infatti cancellato alcuni degli automatismi più aberranti del Codice Rocco che nel 1932 aveva disegnato gli Opg, è intervenuta sui canali di alimentazione di questi istituti e sui meccanismi di uscita. Queste sentenze, insieme alla legge 180 e alle norme sul passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, hanno creato da tempo le condizioni per ridurre i nuovi ingressi e portare a poche centinaia il numero degli internati. Invece gli internati crescono, e le aberrazioni giuridiche continuano anche quando la legge consente di evitarle.
Un esempio: 380 internati sono trattenuti illegalmente. Si tratta di persone che hanno concluso la misura di sicurezza e sono state dichiarate non più «pericolose», eppure il giudice rinnova la misura perché i servizi di salute mentale non vogliono o dicono che non possono prendersi cura di questi loro cittadini, oppure non rispondono alla lettera del magistrato, il quale pigramente rinnova la misura. Il Comitato Stop Opg ha chiesto di conoscere la geografia di questi internamenti illegali per poter contattare le Asl, offrire collaborazione e suggerire le modalità di accesso ai fondi, che la metà delle regioni neppure hanno chiesto, per costruire progetti individualizzati di riabilitazione.
Altro esempio. Oltre la metà degli internati ha commesso «reati bagatellari», - alterchi, minacce, piccoli danneggiamenti - che implicherebbero pene inferiori ai due anni e sono stati perciò condannati alla misura di sicurezza di durata più bassa, cioè due anni (all’opposto, a meno del 20% degli internati è stata inflitta la misura di durata più alta in quanto autori di reati gravi come l’omicidio). Dunque una buona metà degli internati, senza il giudizio di non imputabilità, avrebbe probabilmente avuto una carcerazione più breve. Questa è certo una scandalosa iniquità del codice penale, ma la Corte Costituzionale è intervenuta più volte su questo punto, l’ultima nel 2003 quando ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 222 del codice penale «nella parte in cui non consente al giudice di adottare, in luogo del ricovero in Opg, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale». Questa sentenza chiarisce anche che la misura di sicurezza può essere «la libertà vigilata accompagnata dalla prescrizione di un rapporto stabile e continuativo con il servizio psichiatrico territoriale».
Quanta parte degli internati attuali avrebbe potuto evitare l’Opg se i servizi di salute mentale, i giudici di sorveglianza, i poliziotti e i magistrati si fossero messi a lavorare insieme, caso per caso, utilizzando, come si fa in alcune Asl e regioni, le leggi e le risorse esistenti? Bisogna ricominciare a chiedere conto dei «crimini di pace», come li chiamava Franco Basaglia, che oggi fanno più rabbia perché sappiamo cos’altro si potrebbe fare e invece ci ritroviamo a essere ancora testimoni dell’illegalità, della violenza e della morte amministrate dalle istituzioni democratiche in nome della cura e della protezione.
Una questione, a questo punto, sulla politica e sulla sua capacità di produrre e governare innovazioni istituzionali orientate al rispetto dei diritti. Abbiamo avuto una riforma, la 180, criticata in quanto non graduale, «violenta», nella scelta di chiudere il manicomio. Abbiamo sotto gli occhi il processo graduale che ha riformato gli Opg. Ma in un caso e nell’altro abbiamo una politica che poco o nulla ha fatto per promuovere il riorientamento delle istituzioni sulle nuove norme e per scoraggiare la persistenza delle vecchie attitudini e di comportamenti ai margini della legalità. Avrà ben poco esito una riforma organica degli Opg se la politica non saprà riformarsi.