Gianmaria Pica, Il Riformista 14/6/2011, 14 giugno 2011
LA CRIMINALITA ORGANIZZATA CI COSTA 330 MLD DI EURO
Gli affari della criminalità organizzata ci costano ogni anno circa 330 miliardi di euro. È una somma enorme per un paese senza crescita come l’Italia. Ed è proprio da qui che dovrebbe partire un piano di rilancio economico del paese.
Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha fatto molto per la tenuta dei nostri conti pubblici. Il suo rigorismo ferreo ci ha permesso di respirare durante la peggiore crisi economica dal 1929. Ma il solo rigore, se non viene accompagnato da misure pro-sviluppo, è insufficiente. Dalla Banca d’Italia a Confindustria, la denuncia è unanime: «L’Italia deve ritornare a crescere». Certo, una riforma fiscale avrebbe un forte impatto sui contribuenti: gli italiani godrebbero di maggiore potere di acquisto e la macchina produttiva (commercio e industria) ritornerebbe a marciare. Ma oggi una riforma fiscale - come affermato dallo stesso Tremonti - «non si può fare in deficit». Allora perché non intervenire per togliere ossigeno alle mafie e riprenderci parte di quei 330 miliardi? Si tratterebbe di una lotta quasi a costo zero: bisognerebbe solo rafforzare la normativa vigente di contrasto alla criminalità organizzata e concedere qualche finanziamento in più alle forze dell’ordine. Spesa minima, ma con risultati enormi. Vediamo.
Nonostante i progressivi tagli di fondi pubblici, l’Antimafia italiana ha fatto molto negli ultimi anni. Lo scorso 13 maggio è stata trasmessa alla Camera la relazione sull’attività delle forze di polizia sulla criminalità organizzata riferita al 2009. L’azione di contrasto dello Stato è stata molto forte: 2.463 persone arrestate, tra cui 172 latitanti. Le indagini dei nostri poliziotti hanno permesso anche di indebolire il potere economico - illecitamente acquisito - delle mafie: sono stati sequestrati 9.680 beni per un valore complessivo di 4 miliardi di euro, mentre le confische hanno toccato quota 3.244 per un totale di 1,4 miliardi. Insomma, la lotta alla criminalità organizzata paga e le casse dello Stato si rimpinguano.
Rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata ci permetterebbe di recuperare un bel tesoretto.
L’impatto delle mafie sull’economia italiana è del 22 per cento e il riciclaggio di denaro sporco rappresenta più del 10 per cento del nostro Pil, contro una media europea che si attesta al 5 per cento (dati Fmi). In un’indagine condotta dal Censis, risulta che quasi il 60 per cento degli imprenditori che operano nel Mezzogiorno dichiara di subire condizionamenti da parte della criminalità organizzata; mentre il 40 per cento lamenta effetti negativi sul fatturato. Percentuali che, probabilmente, sono sottostimate: è ancora alta la riluttanza a denunciare pubblicamente la presenza della criminalità organizzata proprio in quelle zone in cui è più forte la presenza mafiosa. Tutti questi fattori frenano lo sviluppo economico dei territori coinvolti e dell’intero paese. A indicarlo c’è innanzitutto una semplice constatazione: il Mezzogiorno, in cui è maggiore la presenza della criminalità organizzata, è anche l’area italiana dal prodotto pro capite più basso. La differenza di Pil pro capite tra le regioni settentrionali e quelle meridionali è di circa il 15 per cento. La crisi economica non ha certo migliorato le cose: molte imprese - che hanno visto ridursi i flussi di cassa e il valore di mercato - sono divenute più facilmente aggredibili dalla criminalità. Il prezzo che una società paga quando è contaminata dal crimine organizzato, in termini di peggiore convivenza civile e mancato sviluppo economico, è alto.
Il problema è che la criminalità organizzata - mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita - non è più circoscritta alle regioni del Sud. L’11 marzo scorso, il governatore Mario Draghi ha denunciato che l’associazione a delinquere di stampo mafioso è concentrata nel Mezzogiorno, «ma anche altre regioni d’Italia non possono più considerarsi immuni dal virus mafioso. Le opportunità connesse con il maggior sviluppo economico e finanziario del Centro-Nord inevitabilmente attraggono l’interesse delle cosche». Già nel 1994 la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia (Commissione Antimafia) certificava l’esistenza di una «vastissima ramificazione di forme varie di criminalità organizzata di tipo mafioso, praticamente in tutte le regioni d’Italia». Chi ci rimette? I soliti italiani onesti. In una economia infiltrata dalle mafie, infatti, la concorrenza viene distorta: per esempio un commerciante vittima del racket può finire con il considerare il “pizzo” come il compenso per un servizio di protezione contro la concorrenza nel suo quartiere. In pratica, il riciclaggio nell’economia legale di proventi criminali impone uno svantaggio competitivo alle imprese che non usufruiscono di questa fonte di denaro a basso costo.
Uno studio della Banca d’Italia ha documentato come nelle economie a forte presenza criminale le imprese pagano più caro il credito. Scrive Bankitalia: «In quelle aree è più rovinosa la distruzione di capitale sociale dovuta all’inquinamento della politica locale; i giovani emigrano di più; tra di essi, quasi un terzo è costituito da laureati che si spostano al Nord in cerca di migliori prospettive. Quest’ultimo fenomeno è particolarmente doloroso: l’inquinamento mafioso piega le speranze dei giovani onesti e istruiti, che potrebbero migliorare le comunità che li generano e invece decidono di non avere altra strada che partire».
Insomma, come dice Draghi, «contrastare le mafie serve a rinsaldare la fibra sociale del paese ma anche a togliere uno dei freni che rallentano il cammino della nostra economia». La ricetta di Tremonti dovrebbe puntare al recupero di quei 330 miliardi: una cifra - per rendere l’idea - che ci permetterebbe di costruire una cinquantina di Ponti sullo Stretto.