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 2011  giugno 15 Mercoledì calendario

I QUATTRO MITI CHE ALIMENTARONO IL FASCISMO

Esiste davvero una «cultura fascista» ? Soprattutto da quando Bobbio ha sostenuto che il regime mussoliniano non è stato in grado di produrre alcuna cultura, il dibattito è proseguito. E adesso ne offre un’efficace sintesi Alessandra Tarquini — un’ottima allieva di Renzo De Felice, già nota per un impegnativo studio su Il Gentile dei fascisti, uscito nel 2009 — con il nuovo saggio Storia della cultura fascista (pp. 230, € 18), edito, come il primo, dal Mulino. Anzitutto, emergono gli elementi base della «politica culturale» attuata dal fascismo fin dalle origini— quando più forte era il peso di Giovanni Gentile — e consolidata attraverso lo sviluppo di organismi, come l’Opera nazionale balilla (1926) o la Gioventù italiana del littorio (1937), che contribuirono a formare, e a condizionare, quella che, attraverso la «carta della scuola» (1939), verrà definita «l’educazione integrale dell’uomo nuovo fascista» . Si afferma l’ideologia dello Stato totalitario, dove — seguendo l’attenta analisi della Tarquini — spicca il ruolo chiave del «mito» : in primis il «mito del Duce» , cioè di Benito Mussolini, come «protagonista di una missione epocale» , o addirittura come «genio propizio alla salvezza dell’intera umanità» (così Gentile nel 1936). Poi, il «mito dell’uomo nuovo» , ossia il fascista quale «prodotto della militarizzazione della politica» , che caratterizzerà la cultura fra le due guerre. E ancora, il «mito di Roma» (e della romanità), che trova il suo culmine nel 1936, con la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’impero. Per finire con il «mito dello Stato» , ovviamente totalitario, sintetizzato nella formula, imposta da Mussolini fin dal 1925: «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, niente contro lo Stato» . Una formula che, da sola, annulla e viola alla radice ogni genuino principio di libertà e di eguaglianza. Quale ultimo aspetto della politica culturale del fascismo, la Tarquini ha ragione di insistere sul ruolo avuto (anzi, offerto) dal mondo intellettuale, che non si esaurisce in alcuni nomi (oltre a Gentile, si pensi a Julius Evola, o Ugo Spirito, o Camillo Pellizzi), ma chiama in causa, purtroppo, anche l’università (dove nel 1931 solo dodici docenti rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime!), la stampa e alcune riviste, fra cui spicca «Primato» di Giuseppe Bottai, che fu tra i fondatori dei fasci di combattimento e finì per votare contro Mussolini nel luglio 1943.