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 2011  giugno 15 Mercoledì calendario

GLI UOMINI CHE SOGNANO DI CORRERE PIU’ DEI CAVALLI

In un’amena località del Galles, Llanwrtyd Wells, da trentadue anni a metà giugno viene organizzato un duello tra il cavallo e l’uomo. Il terreno della disputa non è l’aritmetica o il gioco degli scacchi – in cui tutto sommato avremmo qualche chance – ma la corsa. Ventidue miglia tra prati, colline, e corsi d’acqua. Arma scelta: la resistenza. Il fatto sensazionale è che in un paio di edizioni ha vinto l’uomo. Chi mai avrebbe potuto scommetterci? Si è parlato di nuovo sbarco sulla Luna. L’ennesima barriera invalicabile, valicata. Un altro premio all’arroganza (l’hybris greca) contro i limiti imposti dalla natura. Ma, a pensarci bene, c’è davvero da stupirsi di simili risultati? E’ più o meno da quando abbiamo smesso di cimentarsi con gli dei che lo facciamo con gli animali. I gladiatori contro i leoni, i toreri contro i tori, i pugili contro i canguri. Non paghi della superiorità intellettiva, ci siamo appassionati a queste sfide in territorio avverso, qualcosa che misurasse anche nella probabilissima, inevitabile sconfitta, il nostro coraggio e l’irrilevanza della sproporzione fisica. Immanuel Kant sosteneva che l’uomo, attraverso la sensazione del sublime (provocata da enti e fenomeni immensamente più grandi come montagne e uragani), sapeva riconoscere l’infinito nello spirito e quindi la propria superiorità. Qualcosa di simile sembra accadere anche nel confronto con gli animali: la nostra inadeguatezza ci conforta quanto all’emancipazione dalla loro brutalità. Eravamo bestie anche noi un tempo: perdendo dimostriamo che non lo siamo più. Il fatto è che poi succede che vinciamo. Huw Lobb, l’ultimo uomo a vincere nel 2004, era un maratoneta provetto. Durante la corsa faceva molto caldo e Lobb, provvisto come tutti gli essere umani di un corpo glabro (privo ad esempio di una pesante criniera), ha avuto più facilità a disperdere il calore sudando, ma non ha certo vinto per questo. No, Lobb ha vinto per prudenza (la phronesis dei greci), avvalendosi cioè in modo profondamente antisportivo di una dote che nessun re del galoppo potrà mai sfruttare. L’uomo sa ascoltarsi, sa dosare le proprie forze, sa rallentare, bere a intervalli regolari, gestire la sofferenza, distribuirla in quantità sopportabili lungo tutta la gara mantenendo un ritmo costante secondo la proiezione dei tempi intermedi e un obiettivo cronometrico prefissato. Senza inoltrarci in temi come il doping e la modificazione bionica dell’atleta contemporaneo, basti questo: l’uomo è furbo e si risparmia, il cavallo no. Il cavallo anzi è l’animale generoso per antonomasia, corre a comando fino a schiantarsi, non c’è niente che gli indichi che il cuore sta per scoppiare. Su una gara tanto lunga – e subdolamente umana – non è poi così assurdo che soccomba. Ma esiste un posto che risarcirebbe il suo animo nobile dalla sconfitta. Nei «Viaggi di Gulliver» , il capolavoro di Jonathan Swift, il protagonista sbarca su un’isola dove esseri di grande saggezza, gli Houyhnhnms, posseggono corpi equini, mentre coloro che almeno fisicamente sembrerebbero più simili agli uomini, gli Yahoo, sono segnati dall’abbrutimento e dalla stoltezza. Secondo i cavalli Houyhnhnms, che finiranno per costringere all’esilio il nuovo ospite, così somigliante alla specie reietta dell’isola, c’è un piccolo particolare che acclara subito l’inferiorità degli Yahoo: il modo affettato con cui, nell’incedere, si ostinano a utilizzare solo le zampe posteriori.