Varie, 14 giugno 2011
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Ondaatje Michael
• Colombo (Sri Lanka) 12 settembre 1943. Scrittore. Naturalizzato canadese. Booker Prize 1993 per Il paziente inglese (nel 1997 il celebre film omonimo vinse nove Oscar e due Golden Globe). Famiglia di origini olandesi, vive a Toronto e insegna alla New York University • «[...] Sono nato nello Sri Lanka dove a malapena ho letto un libro. Ascoltavo, però, le storie che, intorno a me, a tavola, si raccontavano in continuazione — spesso erano storie assurde: bugie, pretesti, pettegolezzi su relazioni amorose, o su un mio zio e i suoi sei matrimoni sbagliati. Le “storie” che arrivavano fino a me, perciò, derivavano da una tradizione orale, che ha composto il mio album di famiglia. Quando ne ho scritto, molti anni dopo, in un libro autobiografico intitolato Aria di famiglia, ho dovuto evocare quelle voci, quella tradizione orale in cui era scontato che una bugia ben raccontata valesse più di mille fatti. Quando avevo undici anni mi mandarono a scuola in Inghilterra, e fu allora che cominciai davvero a leggere i libri, intrufolandomi nelle vite immaginarie che si aprivano dinanzi a me. [...] Allo stesso tempo odiavo la realtà della scuola privata inglese, le sue strutture e le sue regole, e le contrastavo con comportamenti “anarchici”, diffidando delle voci e del linguaggio del potere, e di tutta la retorica che lo accompagnava. A quell’epoca, perciò, la vita dello scrittore non mi interessava. Sulla quarta di copertina di un tascabile Penguin lessi che l’autore, Nigel Balchin, aveva scritto il suo primo romanzo mentre era in viaggio di nozze. Ero un adolescente, ma mi rendevo comunque conto che lì c’era qualcosa che non andava. Mi allettava di più l’idea di fare il medico, o magari il ladro. A diciotto anni arrivai in Canada. E fu a Toronto che, con passione, inciampai nella letteratura, e vi trovai casa. Cominciai a scrivere poesia e a collaborare con un piccolo editore, la Coach House Press. Far parte di una piccola casa editrice, durante i primi sette anni della mia carriera di scrittore, mi diede il tempo di trovare una voce che nessuno avrebbe potuto ridurre a pezzi e rimodellare in qualcosa di collaudato e di allineato. E, intanto, imparavo anche come si fa e come si progetta un libro, imparavo che un libro non è soltanto il veicolo di un contenuto. Ma anche all’epoca in cui iniziavo a scrivere ero molto preso, inebriato forse, dal teatro, dal cinema e dalla musica: Ray Charles, Sam Cooke, The Coasters, le storie di Damon Runyon — ai miei occhi tutto ciò aveva tratteggiato un ritratto bizzarro dell’America del Nord, prima ancora che vi arrivassi. Oggi faccio un po’ di fatica a immaginare che tipo di Paese mi aspettavo fosse l’America: un luogo in cui Tom Waits era il Presidente, forse... Come scrittore sono stato influenzato da altre forme d’espressione, più che dalla scrittura in sé. Certo, anche per me la letteratura ha degli eroi, ma non è da loro che ho tratto consapevole ispirazione. So, invece, di essere stato nettamente influenzato dagli album Hot 5 e Hot 7 di Louis Armstrong, e dall’apparente moltiplicarsi delle voci nelle canzoni di Fats Waller, o dalla struttura e dal gioco di rimandi degli affreschi di Diego Rivera che ho visto a Detroit o a Città del Messico. L’arte dei templi dello Sri Lanka mi ha influenzato più di qualsiasi scrittore postmoderno. E ricordo una passeggiata nella Villa Adriana in compagnia di un architetto che mi parlò della “poetica della villa”, e so che probabilmente la nostra conversazione in quel luogo mi ha aiutato a mettere a punto la forma del Paziente inglese. [...]» (“Corriere della Sera” 19/9/2010) • Vedi anche Livia Manera, “Corriere della Sera” 22/3/2008; Paolo Foschini, “Corriere della Sera” 20/9/2008.