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 2011  giugno 14 Martedì calendario

HO TROVATO UN CARAVAGGIO! O UNA BUFALA - “G

HO TROVATO UN CARAVAGGIO! O UNA BUFALA - “G
uardate, c’è un nuovo Caravaggio”, grida la copertina dell’ultimo Domenicale del Sole 24 Ore. Il lettore obbedisce e guarda: ma anche le fotografie sgranate del quotidiano bastano a far capire che il Sant’Agostino nello studio (dipinto bello, ancorché mal conservato) nulla ha a che fare con Caravaggio – nemmeno con quello giovanile, sempre vertiginoso. Il quadro (ovviamente in collezione privata) appare palesemente dipinto quando Caravaggio era già morto da dieci, forse vent’anni, e fa semmai venire in mente le ultime cose di Bartolomeo Cavarozzi, o addirittura le prime di Andrea Sacchi.
NON RESTA, DUNQUE,
che leggere l’articolo dell’autrice della “bella scoperta”: Silvia Danesi Squarzina, che siede sulla cattedra romana di Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan, e che si introduce al lettore come una dama altolocata che passeggia per i giardini del Quirinale assieme a illustri consiglieri di Stato. L’articolo, tuttavia, non scioglie i dubbi suscitati dalle fotografie, giacché non parla del quadro, ma di documenti. E anzi lascia intendere che le attribuzioni si fanno non per via di stile e di confronti figurativi, ma per via d’archivio: e che solo questo tipo di attribuzioni sarebbero ‘provate’. Per buona sorte della storia dell’arte, le cose non stanno così. Per identificare l’autore di un’opera d’arte del passato si devono usare contemporaneamente strumenti diversi: ma quello da cui non si può prescindere è la valutazione della qualità e dello stile dell’opera. La famosa attribuzione, insomma, che è un procedimento verificabile che possiede uno statuto di scientificità. D’altra parte, lo studio dei documenti (importantissimo) non possiede un’oggettività che si possa opporre alla presunta soggettività dell’attribuzione: e lo dimostra proprio la vicenda di questo ennesimo finto Caravaggio. Una targhetta sul verso della tela informa che uno spagnolo acquistò l’opera nel 1857 a Roma, dai discendenti di Vincenzo Giustiniani. La Squarzina deduce che si tratti del quadro di identico soggetto inventariato come Caravaggio nel 1638 in casa Giustiniani: e questa deduzione sarebbe la “prova” dell’attribuzione. Ma (anche ammesso che la targhetta sia originale e da sempre attaccata a quel quadro) si tratta di un’ipotesi. In primo luogo, è possibile che i Giustiniani possedessero molti Sant’Agostino, e niente obbliga a credere che il quadro del 1638 e quello del 1857 fossero lo stesso. Anche se così fosse, poi, sapremmo solo che il quadro del Sole fu attribuito a Caravaggio in un inventario redatto quasi trent’anni dopo la sua morte, e in cui ricorrono espressioni come “si crede di mano del Caravaggio”. In terzo luogo, quel famoso inventario ci dice che Giustiniani possedeva due Caravaggio concepiti come una coppia: un San Girolamo e, appunto, un Sant’Agostino. Se (come fa la Squarzina) il primo si identifica con lo spettacolare e quintessenzialmente caravaggesco Girolamo di Montserrat, che fu eseguito intorno al 1605, è impensabile che il pendant fosse stato dipinto oltre cinque anni prima, e da un Merisi ancora in cerca di identità stilistica. Come si vede, non solo non c’è alcuna prova, ma non c’è neanche alcun conflitto tra attribuzione e documento: l’una e l’altro sono infatti concordi nel negare a Caravaggio il quadro pubblicato dal Sole.
MA QUEST’ULTIMA bufala storico-artistica è solo una fra le tante che pascolano allegramente nella stampa italiana. La più clamorosa degli ultimi anni è naturalmente quella del Crocifisso di un anonimo legnaiolo della Firenze rinascimentale promosso a capolavoro di Michelangelo, comprato da Sandro Bondi per oltre tre milioni di euro e brandito dal governo Berlusconi come una bandiera religioso-culturale. Un’operazione mediatica che ha finito per trasformarsi in un boomerang, provocando l’intervento della magistratura e contribuendo a far perdere la faccia ai vertici del ministero dei Beni culturali, e a non pochi tra i Signori del sistema dell’arte antica in Italia. Anche in quel caso, il problema non era l’assenza di documenti, ma l’insostenibilità dell’attribuzione sul piano della qualità e dello stile. A poche settimane fa risale il “Raffaello” sbattuto in copertina dall’Espresso: una versione (as usual in collezione privata) della Visione di Ezechiele identificata come il vero autografo, detronizzando automaticamente l’esemplare di Palazzo Pitti a Firenze. Anche in quel caso ci si basava soprattutto su una ricerca documentaria che dimostrava solo che nel Seicento esistevano due versioni considerate autografe: quella oggi a Firenze e un’altra, la cui identità con quella dell’Espresso è però tutta da provare. Dunque, molto rumore per nulla.
QUESTI, E MOLTISSIMI altri esempi, mostrano quanto sia deprimente il ruolo della storia dell’arte sulla stampa italiana. Accanto alla più o meno occulta promozione delle Grandi Mostre (che occupa circa il 90% dello spazio), trovano, infatti, udienza solo le “belle scoperte” (quasi sempre destinate a sgonfiarsi in poche ore), mentre nulla filtra circa le idee, le prospettive scientifiche, le scuole di pensiero che costituiscono la vera storia dell’arte. Se quest’ultima vuol provare a recuperare presso l’opinione pubblica uno statuto di scienza storica e di sapere critico, è necessario che i giornali non siano solo strumenti di marketing, ma anche canali attraverso cui inoculare dosi di scetticismo. Magari cantando, con Figaro, “aprite un poco gli occhi, uomini incauti e sciocchi”.