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 2011  giugno 12 Domenica calendario

IL CARCERE HOTEL CON PISCINE E RAGAZZE IN BIKINI

IL CARCERE HOTEL CON PISCINE E RAGAZZE IN BIKINI -

A vederlo da fuori il centro di detenzione di San Antonio sull’isola venezuelana di Margarita sembra un carcere come tanti altri in America Latina. Squallido, isolato dal centro abitato, sorvegliato 24 ore su 24 da guardie armate fino ai denti. Ma basta varcare il portone per rendersi conto che è davvero in un’altra dimensione, una città di nessuno dove il crimine continua a restare impunito e ognuno sbarca il lunario come meglio crede, concedendosi anche sfizi che per un carcerato standard dovrebbero essere lussi, come la piscina e il ping pong. San Antonio ospita duemila detenuti, venezuelani e stranieri, con pene da scontare legate per lo più al narcotraffico.
«Sono i carcerati venezuelani qui a gestire lo show - spiega Fernando Acosta, un pilota messicano di 58 anni arrestato nel 2007 insieme ad un imprenditore congolese per traffico di oltre due tonnellate di cocaina - ma grazie a loro la vita per tutti noi è più confortevole». Un confort “a cinque stelle” grazie al quale le mogli visitano i mariti in bikini per prendere il sole a bordo delle quattro piscine che gli stessi detenuti si sono fatti costruire con i propri soldi. Alle pareti della sala da biliardo spiccano i colorati murales con il logo di Playboy mentre nell’aria un misto di reggae e marijuana anima i presenti.
«Siamo ai Caraibi, del resto», giustifica soddisfatto Felipe, un brasiliano che prima di finire qui dentro smerciava cocaina sulle spiagge dell’isola, scoperta nel 1498 da Cristoforo Colombo, oggi agognata e vivace meta turistica, con circa 420 mila residenti in poco più di mille chilometri quadrati. Clima caldo, atmosfera rilassata insomma, niente a che vedere con gli ammutinamenti violenti delle carceri di Caracas e del resto del Venezuela continentale.
Perfino il presidente Chávez, nel suo consueto programma domenicale “Aló presidente”, ha osannato questo centro di detenzione in occasione dell’inaugurazione dell’ala femminile, nel 2009. Resta, però, da chiedersi se proprio San Antonio possa essere il modello di riferimento in un Paese in cui solo nello scorso anno sono stati uccisi 475 detenuti su una popolazione carceraria di 44.520 persone.
Il direttore, Luis Gutierrez, preferisce non parlare, ma Carlos Nieto, a capo di “Finestra per la libertà”, un’organizzazione che difende i diritti umani, denuncia chiaramente che «lo Stato ha perso il controllo delle carceri in Venezuela» e che «questo è il vero problema». L’ultimo “ammutinamento” è avvenuto alla fine di maggio nel carcere “La Planta di Caracas”, in cui i detenuti armati fino ai denti hanno preso in ostaggio e poi liberato dopo un giorno il direttore del complesso e 14 guardie.
E che davvero il sistema carcerario venezuelano sia sans toit ni loi basta visitare San Antonio nel fine settimana. Assomiglia più ad una casa di vacanze che ad un’istituzione carceraria dove ognuno fa quello che vuole. I detenuti si divertono a preparare il barbecue e a bere whiskey di marca a bordo piscina. Chi, invece, non vuole prendere il sole può rimanersene in cella a dormire con la propria compagna giunta in visita o a giocare con i propri figli. Alcune celle sono perfino dotate di aria condizionata e antenne paraboliche.
«Meglio questo che le gang che si fanno la guerra e si ammazzano» commenta Teofilo Rodriguez, 40 anni di cui 22 nel narcotraffico.
Eppure il governo già nel 2006 aveva promesso un investimento pari ad un miliardo di dollari per l’“umanizzazione” delle carceri, che in Venezuela come in tutta l’America Latina soffrono di sovraffollamento e di alti indici di violenza. «Ma alla fine - denuncia Nieto - la corruzione e il caos istituzionale hanno avuto la meglio». Mancano, infatti, operatori specializzati, corsi di formazione, opportunità serie per un successivo reinserimento dei detenuti nella società.
Per avere un idea dello sfascio generale basti pensare che l’Istituto venezuelano per gli studi penitenziari dall’inizio degli anni ’90 ha formato un migliaio di addetti ai lavori, ma meno di 30 lavorano dentro le carceri. E quel che impressiona è che a lanciare l’allarme è anche il ministro stesso dell’Interno Tareck El Aissami, che in un recente rapporto presentato al parlamento ha auspicato «maggiore impegno per riformare il sistema giudiziario» del Paese. Il Venezuela, infatti, con le strutture che ha sarebbe in grado di ospitare solo 15 mila detenuti di contro agli attuali 44.520. Un’emergenza, insomma, di proporzioni nazionali che coinvolge anche l’Italia visto che il Venezuela è il Paese dell’America Latina con più connazionali detenuti, circa una settantina. Numerose anche le donne, come spiega Enza, un’italiana condannata per narcotraffico e rinchiusa non a San Antonio ma vicino alla capitale Caracas, nel presidio Inof di Los Teques. «Si dorme sempre con un occhio chiuso e un occhio aperto – spiega - il rischio è permanente. La vita in carcere è una lotta per non soccombere. Nel bagno ci sono le lucertole, non c’è il water, né il lavandino. Non c’è luce elettrica. Viviamo continuamente con la paura di non arrivare a domani». In molti come Enza pagherebbero oro, dunque, per le sbarre di San Antonio, anche se il clima vacanziero che lo rende apparentemente un carcere sui generis non deve ingannare: alla fine rimane una giungla criminale come tante altre. Anzi. Proprio perché l’isola di Margarita è un punto di snodo del narcotraffico diretto al mercato statunitense, nelle sue celle circolano armi potentissime.
«Sono stato nell’esercito per 10 anni - spiega Paul Makin, 33 anni, un inglese arrestato per traffico di cocaina nel 2009 - ma le armi che ci sono qui dentro non le avevo mai viste prima d’ora, Magnum, Colts, Uzis, Ingram…». E qualche detenuto le impugna tranquillamente nell’ora d’aria, tra un tuffo in piscina e un mojito.