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 2011  giugno 12 Domenica calendario

MIA MARTINI FU LA MIA FORTUNA ANCHE SE PER TUTTI PORTAVA SFIGA

Drupi, questa è un’intervista un po’ strana. Con pubblico. Siamo all’Università di Pavia davanti agli studenti del corso Cim: laurea in Comunicazion, Innovazione, Multimedialità
«Speriamo benne...».
Leicherapportihaconl’università?
«È la prima volta della mia vita che ci entro. Ai miei tempi era una cosa per ricchi»
Ora si farebbe tentare? Magari per una laurea ad honorem...
«Me ne hanno appena data una ridicola, in Polonia, in Letteratura italiana. Proprio a me che, quasi, non so nemmeno chi sia Pascoli... L’ho buttata».
Lei vive da sempre a Pavia. Perché?
«È la mia terra, qui ho vissuto i momenti più belli. Non mi sono mai voluto staccare dagli amici e dalle origini, anche quando mi hanno offerto di abitare a Roma o Milano. Piuttosto faccio il pendolare».
Questa scelta le ha limitato la carriera?
«Credo di sì, ho perso qualcosa. Ma ci ho guadagnato in qualità della vita. Dopo cinque giorni a Roma già mi sento soffocare, sento il bisogno di tornare qui per pescare, andare a cavallo, giocare a scopa». DormeaPavia,maviaggiamolto.Lascorsa settimana era in Repubblica Ceca. «Concerto in Piazza dell’Orologio, posto in cui hanno suonato solo i Rolling Stones nel 1994. Nell’Europa dell’est ho grande seguito. Mi esibisco anche in Polonia e Germania. E tra qualche settimana andrò a Mosca, mi hanno assicurato ci saranno anche Putin e Kevin Costner. Io penso che sia un balla, ma ci vado. Sarà comunque una grande emozione: ho già cantato altre volte allo Stadio Lenin di fronte a 100 mila persone».
Drupi, quando la sua prima esibizione all’est? «A fine anni ’70. In quel periodo mio zio, ex partigiano e comunista, dipingeva quei posti come fossero l’Eden. Così, alla prima occasione, sono andato oltrecortina a controllare».
Risultato?
«Beh, ho scoperto che non si stava proprio bene come mi aveva fatto credere lui. Ma anche che i comunisti non mangiavano i bambini. Una via di mezzo, insomma, tra i racconti di zio e quelli di don Bruno, il prete dell’oratorio».
La cosa che le è rimasta più impressa del comunismo? «La mancanza di libertà. Se ti fermavi a parlare con qualcuno del posto ti veniva immediatamente chiesto il passaporto». Altre esperienze forti in giro per il mondo? «Negli Usa, pochi anni fa, ho conosciuto il vero razzismo». Cioè? «A Los Angeles sono diventato amico di Larry Duun, tastierista e fondatore dei “Earth Wind and Fire”, uno che come direbbe Berlusconi è molto abbronzato. Siamo entrati in un supermercato e mi sono accorto, a sorpresa, che la gente parlava a me e ignorava lui. Per il colore della pelle. Pazzesco. In Texas, poi...». Che è successo? «Ero a cavallo, avevo preso un po’ di sole e tenevo i capelli lunghi e sciolti. Sono stato scambiato per un nativo, mi hanno trattato male. Poi la spiegazione: “Peggio dei neri ci sono solo gli indiani”».
Drupi, lei è famoso e apprezzato in tutto il mondo, ma snobbato dall’Italia. Perché? «Dieci anni fa ho mandato a quel paese la Rai e la tv in generale».
Ops. Perché?
«La musica vera non ha più spazio. Ora contano i talent show, i partecipanti sono bravi ragazzi, ma niente a che vedere con gli artisti. L’ultima volta, a me, hanno chiesto di cantare in playback i soliti vecchi successi di una volta. Ho risposto: “Ancora? Bastaaaaa!”. Vogliono andare sul sicuro, non rischiano niente di nuovo». Questione di audience, forse.
«La tv ormai rincorre solo quella. E ha bisogno di clamore, insulti, risse. Se non litighi con la Santanchè, in televisione non ti invita nessuno...».
Buona questa. Il risultato è che se non vai in tv vendi pochi dischi? «No, di album in Italia non se ne vendono proprio più. A prescindere. Ora se arrivi a
25 mila copie ti danno il disco d’oro. Mi viene da ridere, una volta dovevi raggiungere il milione». Lei quanto fa?
«Io, sommando i dischi che vendo all’estero, arrivo a 40, 50 mila copie. Quanto chi è nei primi posti della classifica italiana».
Ma Drupi resta fuori dal nostro sistema. «È la mia fortuna. Se fossi tutti i gironi in tv risulterei un bollito. La musica si fa sul palco, non davanti alle telecamere».
A proposito, l’hanno mai invitata a un reality? «A tutti quelli esistenti e a tutti ho detto no. Anche
rinunciando a ingaggi importanti. Ora mi hanno proposto di partecipare a “Ballando con le stelle” in Polonia. Se mi fanno cantare ci vado, ma se devo solo danzare no. I soldi mi farebbero comodo per continuare ad autoprodurmi».
Lei non fa più parte di nessuna etichetta.
«Sono indipendente dal 1980 e la mia piccola casa discografica produce un solo cantante. Me stesso». La gente, quando la incontra, che le chiede?
«Mi guarda stupita perché nella mentalità italiana, se non vai in televisione, non sei nessuno e non esisti più. Mi viene da ridere: la tv è l’essenza del falso”».
In che senso?
«Ti truccano, ti tingono per farti sembrare più giovane. Ma se sono vecchio lasciatemi così! E se ho la pancia me la tengo!». Drupi, a proposito del tempo che passa, facciamo un passo indietro.
«Nasco a Pavia il 10 agosto 1947. Papà Mario, sommergibilista, muore quando ho solo un anno; mamma Armanda lavora alla Snia Viscosa. Adesso ha 95 anni e rompe ancora le palle, nel senso che è in forma. Io ai tempi sono un bimbo disgraziato, ribelle. Scusi, ma...».
Dica.
«Non mi chiede il vero nome e cognome? Non mi chiede perché mi chiamo Drupi?». Vero. Che c’è da ridere?
«È un incubo! Pensi che c’è chi inizia l’intervista con questa domanda: quando capita mi alzo e me ne vado. Giuro». Ora però spieghiamolo. Il nome vero è Giampiero Anelli, giusto?
«Drupi è un soprannome, non un nome d’arte. Ad una recita all’oratorio, da bambino, sono un diavoletto che si chiama così. E mi resta il nomignolo».
Curiosità. E i capelli lunghi?
«Condizionato un po’ dai racconti di mio zio, un po’ dalle foto del nazismo, un po’ dai film di John Wayne, ai tempi dell’adolescenza ho la convinzione che i capelli corti significhino malvagità. E per reazione li lascio crescere. Da quel momento non li taglierò più».
Primo contatto con la musica?
«Sono gli anni dei Beatles e si suona nelle cantine, si fa musica, si sta in gruppo. Non come adesso, che i giovani subiscono la musica mettendosi le supposte nelle orecchie e isolandosi». Lei inizia a lavorare da ragazzino?
«A 14 anni, finito l’istituto professionale, scopro l’amore per i tubi e divento idraulico». Nel frattempo suona e fa parte del gruppo “Le calamite”.
«Diventiamo bravi, ci propongono esibizioni nei locali di Milano e poi un piccolo tour in Italia. E arrivano anche le prime proposte dalle case discografiche. Che rifiuto, perché le canzoni che vorrebbero farmi interpretare non mi piacciono». Quando il salto di qualità?
«Nel 1972, per una botta di culo». Cioè? «Due amici compositori hanno pronto un brano adatto a Mia Martini, ma hanno bisogno di qualcuno che lo canti per incidere un provino e poi farglielo ascoltare. Chiedono a me. Mimì quando sente la canzone è entusiasta, ma pochi giorni prima di andare a Sanremo cambia idea. E molla tutto». Così al Festival mandano lei. «Il brano è “Vado via” e diventerà un successo incredibile. Mia Martini è stata la mia fortuna, ho iniziato la carriera grazie a lei. E pensare che qualche imbecille ha sempre detto in giro che portava sfiga».
Già,cattiveriavergognosa.
«Vent’anni dopo, quando lei era distrutta e al limite del suicidio, l’ho scelta come mia ospite per una trasmissione Rai. Non la volevano, ho dovuto lottare. Ma alla fine si è rilanciata»
Vocestraordinaria.
«Avevamo un progetto, dovevamo registrare un album insieme. Purtroppo èmortaprimacheiniziassimo».
Torniamo al Festival, anno 1973.
«Ci si esibisce al Casinò, entro e resto senza parole: Madòna se l’è picul!, come è piccolo. Mi eliminano la prima sera e arrivo ultimo. Così torno a fare l’idraulico».
Il brano però funziona.
«Solo all’estero. Vengo chiamato da una certa Ariel che mi invita a Parigi: canto in tv ed è un successo». Come mai ride?
«Visto il grande boom, vengo trasferito in Rolls Royce nel più grande Hotel di Parigi, roba da vip americani. Lì conosco Julio Iglesias e scopro che l’è proprio matt, è proprio matto».
Perché?
«Gira per i corridoi dell’albergo in accappatoio e sotto è tutto nudo. Quando incrocia qualche vecchia riccona taaaac apre l’accappatoio e urla “Olè”».
Decisamente matto. Drupi poi torna in Italia e... «Mi invitano a Jesolo per una serata e l’ospite d’onore è Aznavour, di me non si sa ancora niente. Il cantante francese, però, appena arriva corre dagli organizzatori a chiedere spiegazioni: è convinto che la star sia io!».
Iniziano gli anni del successo vero. Nel ’74 canta “Sereno è”, un anno dopo arriva secondo a “Un disco per l’estate” con “Piccola e fragile” e nel ’75 vince il “Festivalbar” con “Due”. Nel ’76 partecipa ancora a Sanremo con “Sambariò”, sesto posto. Nel 1982 arriva terzo al Festival con “Soli”. «Questione di giochetti fatti dagli organizzatori...».
Intende che meritava il primo posto?
«No, cosa ha capito? Sarei arrivato ultimo come sempre, ma credo che la casa discografica, che aveva legami con la Rai, mi abbia spinto più su».
Nel 1984 altro grande trionfo con “Regalami un sorriso”. «Quando mi propongono il brano, d’impatto, non mi piace. Sa troppo di valzer. Poi incontro un musicista inglese che in tre minuti lo arrangia alla perfezione. Allora tengo il ritornello e riscrivo il testo. Funzionerà».
La sua ultima apparizione al Festival è del 1995 con “Voglio una donna”. Poi basta. Addio. «Quella canzone secondo me vien boicottata, anche se non ho le prove. Allora decido che non andrò più a Sanremo, meglio i concerti veri in giro per il mondo».
Drupi, prossimi lavori?
«Un album bello davvero, che forse uscirà a ottobre. Il titolo provvisorio è “Ho sbagliato secolo”. Poi vorrei iniziare una collaborazione artistica con Ron, lui ha tanto da dare e da dire».
Ultime domande veloci. 1) Il suo artista italiano preferito? «Vasco mi fa venire sempre la pelle d’oca». 2) Straniero?
«Ray Charles».
3) Rapporto con la religione?
«Lei sta là, io sto qui».
4) Paura della morte?
«No, tanto deve arrivare».
Ultima. Drupi, ha ancora un sogno?
«Pochissimi. Sono un uomo fortunato, li ho realizzati quasi tutti».