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 2011  giugno 14 Martedì calendario

I SAGGI NON USANO PUNTI ESCLAMATIVI

All´esame di licenza una ragazza ha scritto, di Penelope, definendola: «gagliarda, fedele e sicura». È vero: Penelope è robusta, e la sua fedeltà è di natura sanguigna, domestica, ostinata, cattolica; P. non ha fantasia: è assai più energica dei Proci: e cede ad essi – fino ad un limite – per una segreta convinzione femminile della superiorità maschile.
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Qui alla maturità uno ha scritto «schivo» di Leopardi. È vero: c´è un pudore verbale in Leopardi, che è suo. In Foscolo non c´è; in Manzoni è pudicizia: non è un sentimento delle parole, ma qualcosa che fa tacere; sospende il racconto, non travalica. Il pudore pascoliano è "prude". È una sorta di ribrezzo estetico, da una ripugnanza che non tocca la moralità. Si veda come il Pascoli parla di amore fisico.
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Croce è prova generale della maturità d´una persona: perché si potrà non capirlo; ma non è lecito non goderlo. Croce è un saggio: dei saggi ha la vecchiezza mai fiacca, la serenità, l´umorismo, la dovizia mentale che splende nella sua prosa sintattica modulatissima, come deve essere della sua umile, attenta, paziente, gioiosa intelligenza. Come i saggi, non usa il punto esclamativo.

D´ANNUNZIO, IL MAGNIFICO EPURATO
Leggere D´Annunzio è, credo, il più disperato e nobile sforzo che si possa fare nel 1948. Noi abbiamo "epurato" D´Annunzio: per noi è quell´età da cui usciamo con tanto fervore di condanna. D´Annunzio è dell´età fangosa e provinciale o bulla del provincialismo prepotente: è l´attivismo, la missione, il nietzchianesimo, il guerrismo, l´irrazionalismo – il fascismo. Come si fa a riprenderlo in mano, a studiarlo, a volerlo capire? Raramente l´intelligenza è stata così in preda ad un moralismo petulante e sciocco: rischiamo di farci un´altra volta antistorici.
Sta di fatto che D´Annunzio ci ripugna per quel che rappresenta. Per quel che riassume. Bisognava epurarlo. Ora di D´Annunzio ben pochi si interessano: e credo si interessino in due modi sbagliati; o da M.S.I., o da antifascisti.
Perciò, leggere D´Annunzio deve essere una prova di intelligenza, di chiarezza, di onestà: epurato come fascista dalla storia del pensiero, il suo posto è nella storia della poesia. Vi entrò col favore della politica, che ne fece un domeneddio: non sarà vero che basti la politica a farlo uscire. (…)
Certe parole per D´Annunzio sono "cose"; oggetti duri e precisi – magari gioielli: quando nella sua bocca scoppiano parole come «clamide», «celeuste», o che so io, è qualcosa che egli ritiene determinato – non sono parole inventate ma trovate: e D´Annunzio le butta lì perché ne conosce il suono, lo splendore. E gli tengono su la voce, nella mezz´aria della sua eloquenza (…)
Ha tanto spesso quel suo vocione da oratore, da comiziante. (…) Ma tutto ciò che c´entra con l´estetica? L´estetica è antistorica – l´opera d´arte non ha, come tale, né storia né contenuto né "importanza". Mi chiedo se per caso nessun artista sia mai diventato illustre come tale, o se piuttosto ogni gloria non si riduca ad una constatazione di storicità, di attualità, e, dunque, un riconoscimento pratico e non estetico. È come quando si ha una narcosi verbale, come se certe parole lo ipnotizzassero, gli pesassero addosso, lo affascinassero: termini classici, o di mestiere, nomi di persone o luoghi.
Distinguo questa narcosi da quell´uso spaziato e musicale dei nomi che è colmo di suggestione (Erigone, Aretusa, Berenice) ma quel pesare di parole che si dispongono come oggetti: oggetti luminosi, dotati d´una carica che il poeta patisce e non crea – una vasta sequenza di echi prefabbricata. (…). Se ciò che fa la fortuna d´un poeta è un elemento tutto pratico, è chiaro come D´Annunzio debba ora essere circondato di diffidenza. Le sue parole sono prive di avventura: i suoi miti sono oratori e abbondevoli. Ora noi tendiamo alla "purezza": che ha un contenuto morale ben definito: elusione, sacramentalità verbale.
Ma il "caso" D´Annunzio va energicamente rievocato: prima che un nuovo attivismo lo faccia suo vessillifero – sarà bene capirlo. Capire D´Annunzio è una delle cose più difficili, adesso.

"IL QUARTIERE" DI PRATOLINI
Ieri ho letto il primo libro di Pratolini: Il Quartiere. Devo risalire ai Classici del Lawrence per ritrovare un libro che mi abbia così profondamente colpito: un libro decisivo, di cui non è facile tenere discorso. Certo una gran gioia leggere quelle parole così italiane, così dolci e tenere; ed è così suasiva la tenerezza di quelle pagine, così cantate, ma in modo sommesso, tutto nella memoria. Un libro di grande bellezza; ma è ben di più: è una "cosa" di una realtà inequivocabile, una così autentica gioia a leggerlo – ma da quanto non conoscevo tanta felicità? Pratolini non è affatto né verista né naturalista né realista: è prima di tutto un lirico, e la sua pagina è in primo luogo fatto musicale, canto, ritmo. E tutto il libro è una tenerissima elegia: caro Pratolini, ecco una persona che vorrei conoscere.

"AMERICA" DI KAFKA
Dopo aver letto America di Kafka mi chiedo come si possa "interpretare" un libro di cui manca la conclusione. C´è chi s´è dato pena di mettere quest´opera al centro di sottilissime indagini. Qualcosa di incredibile. O io sono stupido, o c´è un malinteso. Un libro interessante, lo è. Ma come vadano a finire le avventure di Rossmann, io non lo so, e, se il libro è tutto lì, chi altri può capirlo? Papini disse qualche tempo fa che Kafka era «un povero matto». La mia disistima per Papini è un fatto acquisito: ma America è un libro demenziale. Non perché sia estremo ma perché non lo è. Il contegno dei personaggi è devitalizzato, è onirico. Ha lo squallore della follia, come una donna che mi capitava di vedere al Parco. Deserto come un discorso d´un maniaco. Quelle pagine infinite su cose minime: ma perché minime? In realtà proprio questo manca in quelle pagine: la gerarchia, l´ordo rerum, e ciò è demenziale. Kafka mi fa pensare a certi insetti che coprono tutto e distruggono, e mi sembra non avere un capo, una faccia, un volto. Il Processo m´era parso migliore. Sarebbe bene leggere Il Castello.