Francesca Bonazzoli, Corriere della Sera 14/6/2011, 14 giugno 2011
L a guerra per conquistare l’eternità si è sempre combattuta fra due campioni: la poesia e l’architettura
L a guerra per conquistare l’eternità si è sempre combattuta fra due campioni: la poesia e l’architettura. È di Shakespeare una delle più celebri sfide lanciate dalla poesia che riecheggiava a sua volta l’orgoglio di Ovidio e di Orazio: «Né marmo, né gli aurei monumenti di Principi, vivran quanto i miei versi possenti, ma in questi brillerai di più vivo splendore che in un sasso sconciato dalle sozzure del Tempo» . I poeti non avevano dubbi: meglio le rime dei muri. Ma non tutti avevano le medesime certezze e soprattutto i Principi hanno preferito affidarsi alla concretezza degli edifici. Lo stesso Augusto non si accontentò della sua glorificazione attraverso l’Eneide e volle legare l’età dell’oro del suo governo, come già aveva fatto Pericle con Atene, a una imponente riedificazione di Roma: il nuovo corso del primo imperatore doveva passare per il nuovo volto architettonico della città. Allo stesso modo Giulio II, pur noto come il «papa guerriero» , capì però subito quanto le vittorie potessero essere effimere e quanto, al contrario, per un effettivo consolidamento del prestigio potere della Chiesa fosse più efficace dedicarsi a una radicale renovatio Urbis. Grazie all’infallibile fiuto artistico riuscì a legare indissolubilmente il suo nome a quello di Raffaello, Bramante e Michelangelo, gli architetti del simbolo della nuova Roma papale: la basilica di San Pietro. Aveva intuito che il potere temporale della Chiesa aveva bisogno di un segno architettonico, chiaro e visibile, con un’enorme cupola, imponente come era stato il Pantheon della Roma imperiale. Cent’anni dopo, anche Urbano VIII capì che il suo nome sarebbe passato alla storia solo attraverso quello di Bernini e affidò all’architetto la trasformazione della Roma rinascimentale nella Roma barocca. Gli era così chiaro che il suo ricordo dipendeva totalmente dall’arte del suo architetto che negò ostinatamente Bernini al re di Francia così come Giulio II aveva sfiorato la guerra con i Medici di Firenze pur di riavere a Roma Michelangelo. La stessa ragione per cui Cosimo I si legò a Vasari. Il giovane tiranno che aveva asservito Firenze provenendo da un ramo secondario della famiglia Medici, aveva bisogno di un simbolo architettonico da contrapporre a quello dell’orgoglio civico della Repubblica, l’immensa mole della cattedrale di Arnolfo e Brunelleschi. Collegando Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti, le due residenze del nuovo potere mediceo, gli Uffizi dovevano così diventare niente meno che il nuovo asse che scardinava il precedente centro urbano di Santa Maria del Fiore. E se Cosimo doveva essere prudente, un monarca assoluto come Pietro il Grande non si diede limiti: fondò addirittura una città, Pietroburgo, scegliendo i suoi architetti a Torino per darle un analogo aspetto di ordine militare. Del resto un altro sovrano potente come il Sole, Luigi XIV, aveva pensato di «creare» Versailles, la metafora per eccellenza del potere assoluto. Percorrendo la storia a passi veloci, vengono in mente i «monarchi» Georges Pompidou e François Mitterand, anch’essi desiderosi di lasciare attraverso l’architettura un segno più imperituro di quello concessogli da una democrazia parlamentare. Ma soprattutto Hitler che scelse un architetto, Albert Speer, per rifondare la sua Germania i cui edifici sarebbero stati costruiti in modo tale da lasciare nei secoli rovine grandiose, come quelle dell’antica Grecia e dell’Impero romano, a testimonianza perenne della grandezza del Terzo Reich.