Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  giugno 14 Martedì calendario

CARLO BERTELLI

In una lettera al dotto, mondano e temuto amico Benedetto Varchi, Giorgio Vasari si scusava per non essere così pronto con la scrittura come era col pennello. È vero che era capace di affrescare un’intera sala del palazzo della Cancelleria, a Roma, in soli 100 giorni (la sala è ancora chiamata «dei cento giorni» ), ma anche la sua scrittura e la sua parola erano state complici del suo successo. Con orgoglio Vasari descrisse la scoperta, mentre si scavavano fossi e fortezze nella sua Arezzo, della Chimera, perfetto bronzo etrusco e dimostrazione di come gli Etruschi non fossero stati inferiori agli altri popoli antichi della storia. Vasari si sentiva etrusco, ed era convinto della centralità dell’arte toscana, mentre si compiaceva di ricordare che la Chimera era stata posta dal duca proprio in quelle sale nuove del Palazzo Vecchio che lui stesso aveva decorato con l’apoteosi di Leone X. Così la Chimera era nel cuore mediceo del granducato. La lingua di Vasari era quella che si cercava di parlare e usare nelle corti di tutta Italia. Vasari non solo la parlava, ma ne conosceva la duttilità e la ricchezza lessicale e poteva fornire agli altri artisti e ai nuovi conoscitori dell’arte, agli uomini educati da Monsignor Della Casa, i termini nuovi per interpretare il muto linguaggio dell’arte. Come «invenzione» , per esempio, parola chiave del manierismo e strumento immaginativo degli spettacoli, apparati e feste che erano di continuo richiesti. Il toscano Vasari avrebbe scritto le vite di tutti i pittori, non solo dei toscani e creato l’ossatura visiva del sentire italiano. Durante l’esilio dei Medici, Vasari aveva viaggiato. Era stato a Venezia, era stato a Roma (questa è una città dove «si impara camminando» , aveva scritto). Aveva molto guardato e studiato, ma non aveva mai fatto l’architetto, finché non lo spinse il duca Alessandro, con opere minori. Fu il granduca Cosimo che scoprì e mise alla prova le sue straordinarie capacità di architetto. Così Vasari si trovò a ristrutturare in senso moderno le sedi del potere, trasformando il Palazzo Vecchio in residenza del Signore e creando un’inedita zona amministrativa, gli Uffizi. Si trattò di abbattere un intero e popoloso quartiere, d’inventare un’architettura schietta e spaziosa, con una strada interna lunga 140 m e larga 18. Naturalmente in stretta collaborazione con il committente, se fu addirittura il duca a scegliere l’ordine dorico per i due portici voltati che fiancheggiano la strada. La chiusa città medievale apriva lo sguardo sull’Arno e sui colli, una vera rivoluzione. Ma anche una grande impresa d’ingegneria. È, commentò a opera finita Vasari, l’opera più ardua che abbia mai murato, per essere contro il fiume e praticamente «voltata in aria».

STEFANO BUCCI
S econdo Claudia Conforti (docente di Storia dell’architettura all’Università di Roma Tor Vergata e curatrice con Antonio Godoli e Francesca De Vita della mostra degli Uffizi) basterebbe «dare uno sguardo ad una pianta di Firenze cinquecentesca, magari a quella di Bonsignori, per capire come il progetto del Vasari abbia trasformato la Firenze di Giotto o di Dante in quella del Granduca Cosimo» . Come? «Ad esempio pensando alla città non più soltanto come un insieme di edifici ma anche di spazi vuoti come la Cupola o come appunto gli Uffizi. Qualcosa che il barocco concretizzerà in maniera definitiva» . Certo non fu uno spazio immediatamente amato dalla città (in un sonetto si scrisse «con gli Uffizi Cosimo si è trasformato da agnello in lupo mordace» perché controllando i conti in qualche modo controllava le stesse magistrature, gli stessi «uffizi» ). Certo era uno spazio molto differente da quelli, tendenzialmente angusti, della città di allora: «Non è una piazza, perché è troppo stretta — spiega Conforti —. Non è una strada che collega perché ci sono gradini che impediscono il passaggio alle carrozze. Dunque, solo una strada degli occhi, della percezione. Una quinta teatrale, dei sensi. Che riunisce lo spazio del principe, quello di Piazza della Signoria, con le sue fontane e le sue statue, con lo spazio del territorio: la collina. Anche questa è un’altra scena, stavolta comica e satiresca» . D’altra parte «la straordinaria intelligenza urbanistica di Vasari si dimostra nel progetto degli Uffizi nella sua capacità di dominare le dinamiche di formazione e di assestamento degli spazi collettivi e di pubblica rappresentanza, di governarne le valenze simboliche, svelandone inedite funzionalità e folgoranti esiti di decoro urbano» . Nelle parole di Claudia Conforti il concetto di scena e di teatro torna più volte (come anche quello di una sorta di «scavo archeologico in verticale» ): forse perché «in realtà non si tratta di un edificio, piuttosto di una quinta che ingloba tutto quello che c’era in precedenza, sia che si trattasse delle torri medievali o di quella dei Castellani» . E come idea, o meglio come sintomo della influenza del progetto del Vasari, invita a guardare alle similitudini tra gli Uffizi e il Teatro di Vicenza del Palladio. Cosimo, per parte sua, guarda invece a Ottaviano Augusto ma soprattutto considera ancora una volta l’architettura come instrumentum regni, come strumento dunque di potere: «su tutto il progetto incombe sempre la mole del Palazzo della Signoria, da qualsiasi angolo si getti lo sguardo, a ribadire appunto la forza dei Medici» . Anche da un punto di vista tecnico: «Cosimo fa pagare la costruzione alle singole magistrature, ai singoli "uffizi"quasi per dimostrare la loro presunta indipendenza. Ma poi gli impone di portargli i conti. Così, al termine dei vent’anni di lavoro, saranno in pratica sottomesse anche finanziariamente» . E per parlare solo di architettura? «Durante il lavoro di restauro, abbiamo eseguito una serie di carotaggi e abbiamo scoperto che la prima parte, quella seguita direttamente da Vasari, quella dell’antica chiesa di San Pietro in Scheraggio, è di una qualità fantastica, fatta senza economia, né di materiali, né di manodopera» . I problemi, almeno da un punto di realizzazione, arrivano nella parte successivamente «scippata» a Vasari: «Quando il cantiere, secondo il Granduca, cominciò ad essere troppo lungo, venne passato ad un ingegnere militare, capace di assicurare velocità ed efficacia. Effetto raggiunto, solo che la qualità peggiorò globalmente. Come hanno testimoniato anche i restauri» . Come si potrebbero definire, alla fine, architettonicamente, gli Uffizi di Vasari? «Un edificio standardizzato, molto moderno con i suoi moduli replicati e interscambiabili, quasi componibili» . «Qualcosa di davvero unico — conclude Conforti —. Anche perché, non dimentichiamoci, gli Uffizi hanno resistito non solo all’alluvione del 1966 ma anche alla bomba del 1993» .