Corriere della Sera 14/6/2011, 14 giugno 2011
Salvatore Scibona — La prima volta che ho provato a scrivere un romanzo stavo cercando un modo per fare soldi
Salvatore Scibona — La prima volta che ho provato a scrivere un romanzo stavo cercando un modo per fare soldi. Avevo dieci anni. Ero americano, vivevo in periferia, e non c’era nulla che volessi fare che non richiedesse un po’ di soldi. Credo che uno dei motivi per cui ho continuato a gravitare attorno alla scrittura, dopo che ho smesso di considerarla stupidamente un’attività redditizia, è che si trattava di qualcosa che potevo fare senza tirare fuori un centesimo. Di carta a casa ce n’era. Poi mi è balenata l’idea di procurarmi una macchina per scrivere. Ho pregato i miei genitori di comprarmela per tre o quattro anni. Andavo a casa di mia nonna, che ne aveva una. Penso fosse una Royal. Era bianca, elettrica. È stata lei a insegnarmi a battere sui tasti. Jaimy Gordon— Hai sempre sentito che avresti avuto successo, che in un modo o nell’altro ce l’avresti fatta? Salvatore Scibona — Ho iniziato da poco un racconto con questa frase: «Non ho mai avuto alcuna speranza di farcela. E questa grazia mi ha dato la salvezza» . È la verità. Non avevo semplicemente dei dubbi. Ero sicuro di non avere alcuna speranza. Ma sentivo, per quanto sia banale dirlo, di avere una vocazione. Ora però voglio dire io una cosa di te. Tu sei sempre stata devota alla scrittura, eppure il tuo magnifico lavoro era conosciuto solo da pochi lettori. Poi, all’età di 66 anni, in circa tre secondi la tua vita è stata rivoluzionata e hai vinto il National Book Award. Sono stato testimone di quel momento e ho provato una gioia assoluta. C’è una giustizia in questo mondo. Non ti fa sentire orgogliosa? Jaimy Gordon — Direi sollevata. Sono contenta che le persone che credevano in me abbiano finalmente ricevuto una ricompensa. E tu che ne pensi dell’orgoglio? Salvatore Scibona — L’orgoglio in sé indurisce il cuore. Ma essere orgogliosi per qualcun altro è una gioia immensa. Jaimy Gordon— È vero. E quando ti senti sottovalutato, la giusta reazione è apprezzare il lavoro degli altri... Salvatore Scibona — Mi vengono in mente alcune affermazioni contraddittorie. Una è di Gore Vidal: «Ogni volta che un mio amico ha successo una parte di me muore» . All’estremo opposto c’è Freud: «Coloro che amano hanno dato, per così dire, in pegno una parte del loro narcisismo» . Preferisco la seconda. Rende ragione della nostra cattiveria, ma anche della capacità di andare oltre noi stessi. Ora però vorrei che rispondessi a questa domanda. Ci sono degli scrittori che considerano la scrittura come una specie di tortura. E poi ci sono persone che descrivono la loro esperienza creativa come un infinito giubilo. Tu da che parte stai? Jaimy Gordon— Scrivere, per quanto Il primo libro di Salvatore Scibona, «La fine» , appena pubblicato in Italia dalla casa editrice 66thand2nd (traduzione di Beniamino Ambrosi, pp. 392, e 20) è stato tra i finalisti al National Book Award e ha vinto il Young Lions Fiction Award della New York Public Library e il Norman Mailer Cape Cod Award for Exceptional Writing. Nel 2010 Scibona, nato il 2 giugno 1975, è stato incluso dal «New Yorker» tra i «20 under 40» , la lista dei migliori scrittori d’America sotto i quarant’anni. Il libro è già stato pubblicato in Francia e Inghilterra e uscirà nelle prossime settimane in Germania, Portogallo, Spagna e Croazia. Il romanzo di Jaimy Gordon «Lord of Misrule» , ambientato in un ippodromo del West Virginia negli anni Settanta, ha vinto il National Book Award nel 2010. L’autrice— mai tradotta in italiano — ha scritto altri tre romanzi, «Shamp of the City-Solo» , «She Drove Without Stopping» e «Bogeywoman» , incluso dal «Los Angeles Times» tra i migliori romanzi del 2000. Nata a Baltimora il 4 luglio 1944, la Gordon vive a Kalamazoo, nel Michigan, e insegna alla Western Michigan University oltre che per il Prague Summer Program for Writers. Sia Scibona che la Gordon hanno frequentato il Fine Arts Work Center di Provincetown — l’istituto universitario che assegna borse di studio e residenze a scrittori e artisti emergenti. È lì che questa conversazione ha avuto luogo. Entrambi fanno parte della giuria del Work Center che assegna le borse di studio in scrittura creativa. io ne abbia bisogno, e ami farlo, è una specie di sofferenza. Sono intellettuale in maniera instancabile, ma sono anche una che passa la vita per strada, tra i detenuti e i criminali. Non ho vie di mezzo. A dire il vero, l’unica cosa che mi disgusta è l’educazione borghese che ho ricevuto. Era di una noia mortale. E tu, in che posto sei cresciuto? Salvatore Scibona — Leggendo il mio libro, la gente pensa che io sia cresciuto in un quartiere italiano. In realtà non è così. Però sono le mie origini profonde. Nel senso che i miei nonni sono cresciuti in quei quartieri. Siamo noi a dover inventare il passato. I miei parenti lavoravano nel campo delle costruzioni. Facevamo parte del ceto medio, o così credevo; non conoscevo nessuno che non appartenesse a quella classe. Il periodo descritto nel mio libro coincide con l’inizio dell’integrazione degli italiani emigrati in America. Essere bianchi significava appartenere alla classe media. E se i neri si trasferivano nel tuo quartiere, automaticamente entravi anche tu a far parte dei ceti più umili. Perché essere nero significava appartenere alla classe povera. E tu dovevi starne fuori. Una volta hanno chiesto a Toni Morrison come mai gli immigrati europei potessero arrivare in America e, nel giro di due o tre generazioni, entrare a far parte della classe media; mentre i neri erano qui da quattrocento anni e non ci erano ancora riusciti. E lei ha risposto così: perché subito dopo il loro arrivo, quegli immigrati diventavano bianchi. I miei nonni paterni, da bambini, per prima cosa si sentivano italiani; quelli materni si consideravano polacchi. Era la lingua che parlavano a casa a determinare la loro identità. Frequentavano per la maggior parte bianchi di altre etnie che a casa parlavano lingue diverse. Ma poi per salire nella scala sociale, per diventare americani, dovevano prima di tutto essere bianchi. E per tali riuscivano a passare. E questo significava credere alla storiella che fai parte del ceto medio, e che le persone all’interno di quel ceto sono tutte uguali. Jaimy Gordon — Il tema dell’immigrazione è davvero interessante. La generazione successiva ai primi arrivati nel nostro Paese, cioè la prima generazione nata in America, è sempre stata incredibilmente produttiva e creativa. Voglio dire, loro godono del beneficio della cultura tradizionale, forse di una disciplina più dura, di una maggiore chiarezza circa la propria educazione e i relativi obiettivi. Devono scrollarsi di dosso la fedeltà verso un simbolo, qualunque esso sia — la Chiesa cattolica, la sinagoga ortodossa. Ma allo stesso tempo quella generazione è sempre così creativa. Salvatore Scibona — Gli ultimi anni ci hanno regalato una nuova esplosione di scrittori americani di prima generazione, che hanno avuto un forte impatto sulla nostra cultura. Viene da chiedersi se quella specie di influenza mitica che deriva dall’avere più di una lingua in casa, non dia forma all’esperienza che quello scrittore acquista del mondo. In famiglia, la persona più anziana che ho conosciuto era la mia bisnonna. Quando parlava non la capivo. Non parlava neanche italiano. Parlava in dialetto, siciliano, e parlava questo inglese astruso che solo i suoi figli riuscivano a capire. La andavamo a trovare regolarmente nella sua fattoria, in Ohio. Andare a casa di mia bisnonna era come entrare nel diciassettesimo secolo. Il marito era morto da 45 anni e lei continuava a vestirsi di nero. Ha continuato a mandare avanti la fattoria fino all’età di 85 anni. Ha guidato lei il trattore finché non è stata costretta a letto. Jaimy Gordon— Ho paura quando la cultura americana non riceve nutrimento da una nuova generazione di immigrati. Immigrati provenienti da qualunque posto. Perché il problema della cultura americana è che crede così tanto nel fenomeno del momento che è sempre focalizzata sull’ultima novità. Gli americani sono fantastici per il loro ottimismo, per come accolgono ciò che arriva di nuovo. Ma è necessario fare innesti da una cultura più tradizionale perché venga fuori qualcosa di interessante. Salvatore Scibona — Noi americani abbiamo sempre convissuto con l’idea che stavamo contribuendo al progresso, a creare le premesse per una nuova era. E abbiamo sempre convissuto anche con l’influenza continua di culture che erano decisamente più antiche della nostra. Jaimy Gordon— A prescindere dal tipo di cultura. Questa è la cosa interessante.