Paolo Mieli, Corriere della Sera 14/6/2011, 14 giugno 2011
I PATTI CON IL DIAVOLO DA MONACO A YALTA
Il compromesso è la cosa migliore che ci sia. Fu Albert Einstein a dire che gli unici compromessi inammissibili sono quelli «sordidi». Per il resto i compromessi sono indispensabili. Indispensabili sì, nonostante alcuni di essi siano patogeni. Del resto anche i batteri sono patogeni, ma con cure adeguate possiamo limitare il danno. È sbagliato, dunque, dichiararsi ostili al compromesso. I compromessi loschi, sleali o sporchi sono sì riprovevoli, ma non al punto da dover essere evitati in tutti i casi. In particolare non devono esserlo quando la posta in gioco è la pace. Questa la tesi di un importante libro di Avishai Margalit, Sporchi compromessi, che sta per essere pubblicato dal Mulino. Il filosofo israeliano Avishai Margalit, assai conosciuto e apprezzato per aver scritto— assieme a Ian Buruma— Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici, pubblicato in Italia da Einaudi, cerca stavolta di tracciare il confine tra due generi di patto compromissorio: quello cosiddetto «dello scarafaggio nella minestra» e quello che potremmo definire «della mosca nell’unguento» ; il primo rovina irrimediabilmente la zuppa (e non va dunque accettato), mentre il secondo danneggia il balsamo solo in parte (e lo si può, anzi lo si deve prendere in considerazione). Facile? Relativamente. A complicare il tutto c’è il fatto che si tende a considerare pace e giustizia (per le quali in genere si cercano i compromessi) alla stregua di beni complementari, come latte e caffè. In realtà sono alternativi l’uno all’altro, come tè e caffè. A tale proposito Margalit ricorda il caso del primo ministro israeliano Levi Eshkol che, quando gli si chiedeva se voleva del tè o del caffè, rispondeva «metà e metà» , dimostrando che lo spirito del compromesso può rendere insensibili alla circostanza che spesso si debba scegliere. Nella maggior parte dei casi non possiamo cavarcela servendo una bevanda di tè e caffè ed è doveroso, appunto, operare una scelta. Come ci dobbiamo regolare? Il compromesso più celebre della storia moderna è quello del Connecticut che, nel 1787, grazie all’abilità di Roger Sherman, risolse, quantomeno provvisoriamente, la questione della schiavitù nell’atto di dare una Costituzione agli Stati Uniti d’America. La parola «schiavo» nel testo non compariva, ma la schiavitù era di fatto consentita e l’importazione dei neri sarebbe rimasta una pratica legale fino al 1808. Particolarmente imbarazzante era la sezione 2 dell’articolo IV, il quale disponeva che gli schiavi riusciti a scappare negli Stati liberi dovessero essere catturati e restituiti ai loro proprietari. In quello stesso anno il Congresso varò una legge che proibiva la schiavitù a nord del fiume Ohio. E quando si trattò di ammettere il Missouri, si discusse se farlo entrare come Stato libero o come Stato schiavista, dato che alcune zone del Missouri si estendono a nord dell’Ohio. La questione fu risolta con il «compromesso del Missouri» (1820), secondo il quale il Missouri era ammesso come Stato schiavista e il Maine entrava nell’Unione come Stato libero. Anni e anni— prima della Guerra di secessione (1861-1865) — di patteggiamenti sulla schiavitù. Osserva Margalit che, se pure parrebbe anacronistico e quasi ridicolo «biasimare» re Hammurabi di Mesopotamia per aver adottato la schiavitù circa quattromila anni fa, «non è affatto anacronistico ritenere Thomas Jefferson responsabile di aver accettato la schiavitù nel 1787, dato che abolirla era per lui una soluzione praticabile» . Ed è di conseguenza legittimo domandarci se gli Stati Uniti siano stati fondati su un «compromesso sordido» . Disse all’epoca l’abolizionista William Lloyd Garrison: «L’abolizionismo a cui aspiro è assoluto come le leggi di Dio e fermo come il suo trono: non ammette compromessi... l’intesa tra il Nord e il Sud è un patto d’alleanza con la morte e un accordo con l’inferno» . Ma, forse, si potrebbe obiettare che chi accettò il patto già prevedeva che di lì a qualche decennio la schiavitù sarebbe stata abolita. A fronte di questa considerazione, Margalit sostiene che il limite massimo dell’arco di tempo accettabile avrebbe dovuto essere quello di una generazione vivente e che vada dunque riconsiderata la nozione biblica di «generazione del deserto» . La «generazione del deserto» è quella errante dietro Mosè, il quale morì prima di vedere quella successiva che faceva il suo ingresso nella Terra promessa. Andrebbe scartata qualunque posizione morale rivoluzionaria, proiettata nel futuro, che propone il sacrificio della generazione della rivoluzione a beneficio di quelle successive. Mai si devono usare gli esseri umani per raggiungere un fine, per quanto esso sia moralmente encomiabile. «Nella vita morale» , scrive, «il lungo termine è l’arco della vita adulta» . Nessun regime è autorizzato a imporre un grave sacrificio a una generazione senza che essa accordi il proprio consenso. E nessuno chiese agli schiavi, nemmeno indirettamente, se approvavano la Costituzione. Perciò il «compromesso del Connecticut» è da ritenersi «sordido» non perché «abbia contribuito in generale a mantenere un regime disumano, cosa che probabilmente non fece, ma perché nei fatti contribuì a mantenere un regime disumano per tutta una generazione del deserto (in realtà per più di una)» . E le restrizioni poste all’importazione degli schiavi nel 1808 non furono di alcun sollievo a coloro che si trovavano già in condizioni di schiavitù. Un secondo caso di compromesso definito «sordido» è quello di Monaco. Il 29 settembre 1938 Adolf Hitler incontrò a Monaco i primi ministri di Francia, Edouard Daladier, e d’Inghilterra, Neville Chamberlain, per firmare un accordo che sanciva il passaggio— dalla Cecoslovacchia alla Germania — del territorio dei Sudeti, una striscia di terra di etnia tedesca. In cambio Hitler si impegnava a non avanzare ulteriori richieste territoriali in Europa. Ma nel marzo dell’anno successivo, il 1939, l’esercito tedesco occupò Praga. Da quel momento la parola appeasement, usata da Chamberlain a giustificare l’intesa in nome della pace, assunse il significato di resa alle richieste di chi è prepotente per il sol fatto che è, appunto, prepotente. Perché un compromesso sia giudicato tale, ciascuna delle due parti coinvolte dovrebbe fare concessioni all’altra. Hitler in quell’occasione, a parte qualche vaga promessa, non ne fece. Winston Churchill, che criticò quel patto, così lo derise in un discorso tenuto il 5 ottobre alla Camera dei Comuni: «Ci fu chiesta una sterlina con il fucile puntato; quando la si ottenne, furono chieste due sterline con il fucile puntato; alla fine il dittatore accettò di ricevere una sterlina, diciassette scellini e sei pence, e lasciò il resto come promessa di disponibilità futura» . Ma in sé quell’accordo non aveva niente di sordido. Supponiamo, scrive Margalit, che le pretese sui Sudeti fossero state avanzate, anziché dallo spregevole Hitler, dal rispettabile Walther Rathenau per conto della Repubblica di Weimar: le persone ragionevoli avrebbero osservato che la Cecoslovacchia, coerente al proprio nome, intendeva governare due soli popoli, sette milioni di cechi e due milioni di slovacchi, e che dunque era forse legittima la richiesta di autodeterminazione dei tre milioni di tedeschi dei Sudeti. Quanto a fidarsi del cancelliere tedesco che si impegnava a chiudere lì la questione, si trattava di un errore empirico, non di una trasgressione morale. Di sordido nel patto di Monaco c’era dunque solo l’interlocutore, non il documento che fu firmato. Anche se l’Hitler del 1938 non era lo stesso che avremmo conosciuto negli anni successivi, già allora «si sarebbe dovuto percepire con chiarezza che il nazismo rappresentava il male radicale» . Ne consegue che tutti gli accordi con il regime di Hitler furono sordidi per definizione? No, risponde Margalit. Se lo scambio detto «Blood for Trucks» , proposto il 25 aprile del 1944 agli Alleati da Adolf Eichmann per conto delle massime autorità delle SS, fosse stato accettato, questo consenso non avrebbe dovuto essere considerato immorale, dal momento che prevedeva di salvare la vita di un milione di ebrei ungheresi in cambio della consegna alla Germania di diecimila camion. Gli Alleati respinsero l’offerta adducendo molte buone ragioni, tra le quali però non c’era l’immoralità dell’opzione. Se lo avessero accettato, quel compromesso, che avrebbe salvato molte persone dall’umiliazione e dalla morte, in nessun caso lo avremmo potuto definire «sordido» . Uno «scarafaggio nella minestra» è invece, secondo Margalit, quello contenuto nell’accordo di Yalta del febbraio 1945. Scarafaggio che va sotto il nome di «operazione Keelhaul» . È il nome in codice di un’operazione iniziata dalle forze militari anglo-americane tra maggio e giugno 1945 che consisteva nella «restituzione» all’Urss dei rifugiati di guerra sovietici in Austria. Due milioni di persone consegnate al carnefice Stalin. Margalit osserva che il nome in codice, «Keelhaul» , è molto significativo: «Deriva dalla feroce punizione un tempo praticata dalla marina britannica e olandese, che prevedeva di gettare la vittima sotto la nave e trascinarla con una corda, riservandole poche probabilità di sopravvivenza» . Chiamare così quell’operazione, che Aleksandr Solzhenitsyn ha definito «l’ultimo segreto della Seconda guerra mondiale» , indica chiaramente che chi l’aveva progettata conosceva la sorte a cui erano destinati gli sventurati. Secondo i russi, il caso emblematico di quei prigionieri da restituire era quello del generale Andrej Andrejevic Vlasov, un ex ufficiale dell’Armata Rossa che si era distinto per meriti militari durante il primo anno di guerra, ma che, poi, caduto nelle mani dei tedeschi, si era messo al loro servizio, reclutando un esercito per combattere i suoi ex compagni. Solzhenitsyn ha rilevato che molti di quelli che furono rimandati a forza in patria non erano seguaci di Vlasov, né soldati sovietici e neanche cittadini dell’Urss. Si trattava di discendenti dei controrivoluzionari cosacchi sconfitti dopo la Prima guerra mondiale e fuggiti dall’Urss prima che divenisse tale. E anche tra coloro che erano stati a pieno titolo cittadini sovietici, si sarebbe dovuto operare delle distinzioni. C’è una relazione di John Galsworthy, un funzionario degli Esteri britannico coinvolto all’epoca nella vicenda, che già allora scrisse: «Sulla base delle conoscenze di cui dispongo, la nostra interpretazione (quella che consentiva la deportazione in Urss dei due milioni di rifugiati, ndr) è basata su un criterio di convenienza: sarebbe paradossale esporre le relazioni anglo-sovietiche a ulteriori tensioni per favorire persone che hanno attivamente combattuto il nostro alleato (l’Urss, ndr)» . Ma Galsworthy poi aggiungeva: «Naturalmente questa è solo una parte della storia, perché tra coloro che siamo obbligati a rimpatriare ci sono anche persone che sotto il regime sovietico hanno sofferto per colpe non proprie, non lo hanno combattuto e stanno soltanto cercando di evitarlo» . Quali rischi avrebbero corso gli Alleati occidentali, si domanda Margalit, se avessero rifiutato il rimpatrio forzato di quei poveretti? Non c’è la minima prova «che questa scelta avrebbe sciolto l’alleanza con l’Unione Sovietica; i sovietici erano estremamente preoccupati che l’Occidente stringesse un accordo separato con la Germania nazista, avevano una grande quantità di questioni ancora aperte ed è difficile pensare che avrebbero rischiato di contrapporsi agli Alleati su quella questione» . È vero che i nazisti cercavano ancora di seminare zizzania tra gli Alleati occidentali e l’Urss, nella speranza di firmare patti di pace separati. Ed è vero anche che entrambe le parti avevano buone ragioni per sospettare che l’altra stringesse un accordo con i nazisti, dato che ambedue l’avevano fatto in precedenza: la Gran Bretagna nel ’ 38 a Monaco, l’Unione Sovietica con il patto Molotov-Ribbentrop del ’ 39. «Tuttavia» , sostiene l’autore del libro, «la concessione del diritto d’asilo ai prigionieri di guerra non avrebbe rotto l’alleanza, ma l’avrebbe solo messa maggiormente alla prova» . Ad aggravare il tutto c’è che il ministro degli Esteri inglese Anthony Eden lasciò scritto che la sua «principale» preoccupazione era all’epoca quella di ottenere il ritorno dei «suoi» prigionieri di guerra dalla Prussia orientale e dalla Polonia e non si poteva perciò «dare dispiaceri a Stalin» . Per di più Eden quei prigionieri russi non se li voleva trovare «accollati per sempre» : «Non possiamo permetterci di fare i sentimentali su questo punto!» fu la sua sentenza. E a rendere ancor più imbarazzante il tutto fu che l’ «operazione Keelhaul» andò avanti ben oltre la conclusione della guerra. Fino al 1947. C’è poi la questione di un altro genere di compromesso: il «patto con il diavolo» . Margalit cita a proposito quello di Yisrael Kastner, capo dell’organizzazione ebraica nota come Comitato per la salvezza, nel corso dell’occupazione nazista dell’Ungheria. Kastner strinse un accordo con Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS responsabile della deportazione degli ebrei ungheresi nei campi di sterminio nazisti. In virtù di quell’accordo, si salvarono 1.685 persone, che fuggirono dall’Ungheria su quello che fu chiamato, appunto, il «treno di Kastner» . Ne parlò lo stesso Eichmann alla rivista «Life» , dicendo che Kastner, in cambio di quel treno, aveva accettato di collaborare con lui «per impedire che gli ebrei opponessero resistenza alla deportazione » . «Fu un buon affare» , disse Eichmann, intendendo che lo fu per i tedeschi. Dopo la guerra Kastner si trasferì in Israele, ma venne dato alle stampe un pamphlet che lo accusava di aver collaborato con i nazisti. Kastner denunciò l’autore del pamphlet e lo trascinò in giudizio. Il giudice Benjamin Halevi stabilì che l’operato di Kastner era stato parte del piano per sterminare gli ebrei. A suo parere il patto di Kastner fu sordido, in virtù del fatto che fu stipulato con il diavolo nazista. Ma, osserva Margalit, ci sono seri dubbi che l’accordo tra il «diavolo tedesco» e Kastner possa essere considerato un compromesso, data la natura coercitiva del patto. La Corte suprema di Israele respinse il verdetto di Halevi, rifiutandosi di considerare sordido l’accordo, anche in virtù del fatto che era coercitivo. «Credo» , scrive Margalit , «che la Corte suprema avesse ragione e che il giudice Halevi avesse torto» . C’è infine il «compromesso di Rimmon» , che compare all’epoca — giugno del 1941 — in cui Churchill sceglie di schierarsi con Stalin contro Hitler. Il suo segretario gli chiese se ciò non equivaleva a «inchinarsi alla casa di Rimmon» . Alludeva, il segretario, a un episodio dell’Antico Testamento, quello in cui Naaman, il comandante dell’esercito arameo ammalato di lebbra, aveva promesso di adorare soltanto Dio dopo essere stato guarito dal profeta Elia. Successivamente però aveva avuto un ripensamento e aveva chiesto di poter essere scusato nei casi in cui avrebbe dovuto seguire il suo re e prostrarsi all’idolo aramaico Rimmon. Il profeta accolse la sua richiesta e da quel passo si evince come la Bibbia riconosca nell’atto di inchinarsi alla casa di Rimmon la natura di un compromesso necessario, che non deve e non può essere rimproverato. Churchill così rispose al suo segretario: «Ho soltanto un obiettivo, distruggere Hitler, dopodiché la mia vita sarà più semplice. Se Hitler invadesse l’inferno, in Parlamento spenderei almeno qualche parola a favore del diavolo» . E siamo nuovamente al «patto con il diavolo» . Margalit fa osservare che Stalin aveva commesso i suoi crimini peggiori prima della guerra, mentre Hitler li commise durante la guerra. «Quando Churchill espresse quel giudizio, Stalin aveva già dato il peggio, mentre Hitler era ancora ben lungi dall’averlo espresso» . Tuttavia, prosegue, «credo che Churchill avesse ragione, non tanto perché il peggio di Stalin non fosse all’altezza del peggio di Hitler, quanto perché il male che Hitler perpetrava era il male radicale, il male che metteva a rischio la moralità stessa... Il male infernale commesso da Stalin era diverso e Churchill seppe percepirne la differenza» . Eppure, prosegue l’autore, Stalin all’epoca aveva già assassinato milioni e milioni di persone. E qui con un certo coraggio aggiunge: «Il principio che la vita di ogni essere umano conta uno, né più né meno, richiede che il male cardinale dello sterminio di massa sia misurato utilizzando soltanto i numeri cardinali. Una volta stabilito che si tratta di omicidio, esso va semplicemente sommato agli altri. Secondo questa prospettiva non dovremmo dare importanza ad altre considerazioni e ad altri numeri, poiché essi contribuiscono ad annebbiare il nostro giudizio morale. Per esempio non dovremmo trastullarci con le percentuali dei morti assassinati rispetto alla popolazione totale o con quella del numero delle donne, dei bambini o dei vecchi. La popolazione rilevante è l’umanità in generale e questo è quanto. Pertanto il rapporto tra il numero delle vittime e il totale della popolazione nel massacro di Pol Pot in Cambogia (un quarto del totale) pur essendo molto più alto di quello delle vittime nella Cina di Mao (circa un dodicesimo della popolazione), non mette Pol Pot nella stessa categoria di Mao. Il regime di Mao fu responsabile di 65 milioni di morti, rispetto ai modesti due milioni del regime di Pol Pot. In tribunale, in certi tribunali almeno, un serial killer riceve un numero di condanne all’ergastolo in proporzione al numero delle vittime di cui si è reso colpevole; è un provvedimento che vuole essere simbolo del principio che un omicidio è un omicidio, ogni vita ha lo stesso valore di un’altra e deve essere considerata individualmente» . E allora? «Assassinare il Quartetto di Budapest non rappresenta un male peggiore, in quanto omicidio, che assassinare quattro persone qualsiasi. Il genocidio degli ebrei e la distruzione della loro cultura non dovrebbe essere considerato un male peggiore dell’assassinio dei kulaki per il fatto che questi non appartenevano a un gruppo culturale, ma soltanto a una categoria burocratica che era stata precedentemente imposta dall’alto da Stolypin (1906)» . Per di più alla fine degli anni Trenta (all’epoca del «compromesso» di Monaco), Stalin aveva commesso un numero di crimini infinitamente superiore a quelli di Hitler. Non poteva affatto essere considerato come il male minore. Un discorso che ci conduce su un crinale poco frequentato. Margalit però precisa: «L’aspetto che rende il genocidio un crimine orribile, oltre a essere un’ignobile uccisione di massa indiscriminata, è lo smembramento dell’idea di umanità condivisa che essa manifesta. Etichettando una particolare categoria di esseri umani come creature che non meritano di vivere, il genocidio cancella questa categoria dall’umanità» . Il presupposto principale della moralità è l’umanità condivisa. Il nazismo fu «un attacco consapevole all’idea di umanità condivisa e quindi alla possibilità di affermazione della moralità stessa» . Il comunismo no. Perciò Churchill fece bene a preferire Stalin a Hitler o, come diceva lui, il Diavolo a Herr Hitler «non perché il primo fosse un male di grado minore, ma perché era un male di genere diverso» . Tuttavia «ciò non significa che dovrebbe lasciarci indifferenti il fatto che tra i nostri amici ci sono alcuni ex stalinisti ma nessun ex hitlerista e che verso di loro siamo indulgenti come non oseremmo mai essere verso gli ex hitleristi» . E che stona la circostanza per cui riteniamo il simpatizzante nazista Drieu La Rochelle «un personaggio degno della più severa condanna morale, mentre giudichiamo con benevolenza Louis Aragon... che scrisse l’ignobile poesia Prélude au temps des cerises (1931) dove si inneggiava "ossessivamente"alla polizia politica sovietica che all’epoca sottoponeva a tortura centinaia di migliaia di persone» . Porta lontano, molto lontano, il discorso sui compromessi. paolo. mieli@rcs. it © RIPRODUZIONE RISERVATA
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