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 2011  giugno 13 Lunedì calendario

Lavier Bertrand

• Châtillon-sur-Seine (Francia) 14 giugno 1949. Artista • «[...] è uno degli artisti francesi più significativi degli ultimi decenni, di matrice concettuale, pronto a trasformare l’oggetto comune in opera d’arte e per questo considerato “figlio” di Marcel Duchamp, come ammette lui stesso anche se con grandi perplessità: “Molti artisti hanno seguito Duchamp perché hanno avuto il mio stesso pensiero: lui è po’ come Brunelleschi o Masaccio, ha cambiato le regole della prospettiva. Dopo Duchamp le regole della visione artistica sono state modificate e la realtà non è più stata trattata nello stesso modo. Ma non si può dire: lei è un seguace o un allievo di Duchamp... Dopo Masaccio, degli artisti che hanno accettato le regole della prospettiva, non si è detto che erano suoi allievi ma che hanno adottato un linguaggio personale. Fino a venti o trent’anni fa quando c’era un oggetto ‘ready made’ si pensava subito a Duchamp, si avvertiva come una sorta di onda d’urto del cambiamento. Oggi però abbiamo recuperato un po’ di obbiettività e guardiamo alla cose meno traumatizzati da questo cambiamento” [...]”» (Paolo Vagheggi, “la Repubblica” 19/1/2009) • «Prima di lanciarsi nella carriera artistica [...] fu ortocultore. La cosa, oltre che accertato dato di cronaca (laurea in agronomia a Versailles), è profondamente legata al suo metodo artistico. Fu allora che imparò a osservare, a cogliere oggetti dall’immenso campo incolto della contemporaneità, a operare innesti minimi ma decisivi per far scorrere nuova linfa in un vecchio trapano o rugginose serrature. Fu lì che capì come allestire mostre sia creare un rapporto di risonanza e armonia fra opere e spazio che le accoglie. [...] Per anni ha subito l’implacabile accostamento a Duchamp: “Mi ha sempre irritato [...] Duchamp è come Leon Battista Alberti. Ha dato al mondo una nuova prospettiva e gli siamo debitori. Ma io non ho ereditato il suo cinismo né il suo distacco, preferirei essere paragonato a Kandinsky”. Ha ragione. Ridipingere con dense pennellate nere un pianoforte a coda è cosa da pittore. Mettere un frigorifero su una cassaforte è, come dice lui, “porre una scultura su una base”. Comprare a metri stoffa da tappezziere a quadretti, inchiodarla al telaio e ridefinirne una porzione con colore acrilico è gesto molto astratto. Oltre che giardiniere, pittore e scultore, Lavier è anche un antropologo. Raccoglie oggetti con i segni dell’uso, ma lo fa con occhio scientifico e non con spirito romantico. “Ogni opera è in bilico su una catastrofe; io preferisco restare sul filo dell’acrobazia piuttosto che precipitare nel piagnisteo”, dice ridendo. Per questo è difficile classificarlo. Troppo sofisticato per essere Pop, troppo illuminista per la sacralità della materia da Arte Povera, Lavier è visto come un maestro dalla nuova generazione di artisti (Philippe Parreno o Pierre Huyghe) e critici (Daniel Birnbaum o Hans Ulrich Obrist) che lo considerano più precursore di Jeff Koons che figlio di Duchamp. Come non capirli? Lavier appartiene completamente alla contemporaneità. Non ha l’ideologia dell’avanguardia, né l’immaterialità concettuale. Tra le tribù dei “cacciatori e raccoglitori”, lui appartiene alla seconda specie: agli artisti che giocano con quella discarica di memoria che il Novecento ci ha lasciato senza preoccuparsi della gerarchia delle fonti. Dunque è un uomo libero. Libero di copiare una scultura simil Moore da un fumetto Disney, e trasformarla in opera di poliestere alta due metri. Libero di prendere un oggetto e farne un trompe l’oeil. “L’importante è che una volta svelato il trucco e passato il divertimento, rimanga la fascinazione. Io sono per la materializzazione dell’opera, se possibile anche per la materializzazione dell’aura”, dice divertito: “Secondo Duchamp è lo spettatore che fa il quadro. Secondo me, noi francesi siamo specialisti di frasi belle ma un po’ idiote. Non è lo spettatore che fa il quadro, né chi ascolta musica che fa Mozart. Sono le cose che ci trasformano. Noi possiamo solo aiutarle a crescere”. Con un innesto, una potatura, del colore e la forza di un’idea» (Alessandra Mammì, “L’espresso” 29/1/2009) • Vedi anche Renato Barilli, “l’Unità” 14/2/2009; Laura Cherubini, “Il Giornale” 14/2/2009).