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 2011  giugno 12 Domenica calendario

«MI SALVO’ UNA SUORA. CON LA SCRITTURA»

Isabella Santacroce, paroliera preferita di Gianna Nannini, sulfurea autrice di Fluo, Destroy, Luminal, Revolver, Dark demonio, Zoo, Lovers, Lulù Delacroix e V. M. 18 (che vorrebbe dire vietato ai minori di 18 anni), a suo tempo classificata tra i giovani scrittori «cannibali», vive in una casa — quella estiva di Rimini (quella invernale si trova a Riccione) — che, volente o nolente, le somiglia. Testimonia, infatti, di un misto di aggressività e di tenerezza delle quali si ha l’impressione di trovare tracce nel suo carattere. Ci sono, per esempio, fotografie di nudi esibiti e ritratti della nonna sorridente sull’aia, ci sono amabili mobili d’epoca e strutture d’acciaio nero, ci sono inquietanti fari puntati in varie direzioni e gelsomini che romanticamente si arrampicano intorno alla porta finestra, ci sono cerbiatti di gomma a grandezza naturale che pascolano in mezzo a musica rock a volte — come precisa la padrona di casa — anche piuttosto violenta. È qui che Isabella scrive, seduta «su una sedia più scomoda possibile» , come spiega, per non rilassarsi nemmeno un momento, ma forse anche per stare sveglia visto che scrive sempre di notte, non raramente fino alle sette del mattino. Due cartelle per notte al massimo, ma che all’alba sono già lette e rilette tanto che né lei né l’editore sposteranno più una virgola. Soltanto in momenti di particolare grazia arriva a completarne tre o quattro, sul suo piccolo pc portatile, appoggiato discretamente su una scrivania spoglia, unico indizio concreto che in questa stanza qualcuno, eventualmente, si dà alla letteratura. Libri, sì, ce ne sono, ma non la valanga che si ci aspetta di solito nelle case degli scrittori. Lei del resto, lo dice: «Non ho tempo per leggere, neppure i giornali, ho sempre da scrivere» . Però racconta con passione di tre autori che in questo momento le sono cari, Djuna Barnes, Simone Weil e Fernando Pessoa, e caldamente li raccomanda. Isabella Santacroce regna nella sua casa vestita per fare paura: di cuoio nero dalla testa ai piedi, con stivali dal tacco di altezza incalcolabile ornati da minacciose creste pinnate che ondeggiano a ogni passo, capelli scuri e lisci che, però, tocca in continuazione come un’adolescente insicura e, a parlare di sé fa fatica, affermando e smentendo, cancellando, precisando e, infine, ripristinando, anche a conversazione conclusa, più tardi, via sms sul cellulare. «Non so chi sono — risponde a chi vorrebbe sapere qualcosa di lei— so soltanto che la scrittura, anzi la letteratura, è la mia vita; sacrifico alla letteratura, non ho famiglia né figli a causa della letteratura, non esco quasi mai, non vado neppure al mare pur vivendo tra Rimini e Riccione, vedo pochissime persone sempre a causa della letteratura. So che farò la fine di Emily Dickinson — che, peraltro, si travestiva come me — isolatissima, sempre chiusa in casa. A volte vorrei avere la vita degli altri, vita normale, ci penso soprattutto quando qualcuno che conosco si sposa... Ma il mio destino è questo e i destini non si possono modificare. È una specie di hard disk che mi porto dentro. Probabilmente è anche previsto dal mio hard disk di venire attaccata ogni tanto da qualche critico che mette in dubbio la mia essenza di scrittrice e quindi della mia stessa persona. Quando succede — è successo di recente— non mi resta che mettermi in salvo sull’isola delle parole lasciatemi da Cesare Garboli che mi definì una prosatrice d’arte di altissima qualità, ipnotica e incantatoria, tra i cinquanta autori più rappresentativi della seconda metà del Novecento» . Rassicurata da questo notevolissimo talismano che torna a lucidare quando che si sente disconosciuta o imprigionata dentro una qualche etichettatura, Isabella si è ora lanciata a scrivere la prima parte della sua autobiografia, intitolata appunto Non so chi sono. Ha osato farlo nonostante le autobiografie sia uso stenderle in genere da vecchi, cosa che certo lei non è, anche se preferisce sorvolare sull’età, come, del resto sorvola Wikipedia che avverte: della vita di Isabella Santacroce si hanno poche informazioni. Tranne quella che è nata a Riccione ed esercita la professione di scrittrice. Nella prima parte di questa autobiografia, Isabella narra della sua infanzia miracolata dall’incontro con una persona speciale, sua eroina e mitica superdonna, come la definisce lei. Un’artista? Una maga? Una geniale compagna di scuola? Una formidabile zia? Una sapiente grande vecchia? No, una piccola monaca, suor Maria— cui è dedicata l’opera — per cinque anni sua maestra elementare, che di una bambina selvatica e timidissima ha fatto una scrittrice: in erba, ma già scrittrice. «Andavo a scuola con una valigetta nella quale tenevo un cerbiatto di peluche e qualche giocattolo, la appoggiavo sul banco e non facevo nulla, non parlavo, non chiedevo, guardavo i miei compagni di classe che chiacchieravano, ridevano, disegnavano, scarabocchiavano sui quaderni. Io niente. Immobile nel mio banco con un cappello di pelliccia in testa, in tutte le stagioni, con il caldo e con il freddo. Sull’abbigliamento ero ostinatissima già a sei anni, non volevo vestirmi come le altre bambine e mia madre doveva lasciar fare. Fu suor Maria a svegliarmi dal mio incantesimo, a darmi coraggio, a indurmi a scrivere visto che ero troppo timida per parlare. Non so come avesse capito che sarei stata in grado di farlo, forse aveva soltanto pietà di me, così isolata e silenziosa. In un certo senso posso dire che è stata la mia prima editrice. Ha letto e fatto leggere nelle altre classi i miei temi, mi ha seguito, mi ha consigliato e procurato libri, per cinque anni ho vissuto sotto le ali di questa magica donna» . Con suor Maria la bambina Isabella andava anche ai freschi d’estate, in una casa di vacanze per monache sull’Appennino, dove le era permesso suonare l’organo della chiesa, fabbricare ostie con l’apposito stampino, ma anche, in nome di qualche sua efferata sfida, indurre la povera suora a togliersi il velo per farle vedere i capelli tagliati. Dopo le elementari, finito il paradiso, perdute la guida e la protezione, le è toccato combattere da sola: le era, però, rimasta la scrittura. «Suor Maria l’ho rivista qualche anno fa, è un’anziana suora, adesso, non insegna più, le ho telefonato e sono andata a trovarla a Bologna, ma ero triste perché non potevo tornare a essere piccola come avrei voluto. I miei libri non li ha letti né io le ho chiesto di farlo» . Dell’autobiografia Isabella Santacroce ha deciso che verranno stampate soltanto dieci copie. Troppo facile, troppo normale pubblicare normalmente presso uno dei suoi tanti editori (Castelvecchi, Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli...) peraltro dispostissimi all’impresa. «Un’autobiografia— spiega l’autrice— è una narrazione troppo intima per darla in pasto al pubblico; chi desidera leggerla deve volerlo davvero» . Perciò Io non so chi sono andrà all’asta su Facebook, un bel volume confezionato dentro un’apposita scatola, e dieci persone soltanto potranno avervi accesso. Bizzarria di scrittrice che ama stupire? Provocazione mediatica studiata a tavolino? Astuta operazione di marketing? Isabella nega. Insiste che il racconto— in effetti spesso doloroso— di un’infanzia e di una giovinezza bisogna meritarselo: troppo facile andare in libreria a comprarlo e poi leggerlo magari senza vera attenzione. I critici che non la amano probabilmente non le crederebbero; chi l’ascolta parlare, drammatica e un poco teatrale ma anche sorprendentemente ingenua, è tentato, per contro, di prestarle fede.