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 2011  giugno 11 Sabato calendario

Caro direttore, dopo tanti discorsi vaghi e inconcludenti, sembra opportuno cercare di «mettere con i piedi per terra» il dibattito sulla «riforma fiscale» , termine ambiguo che continua a riproporre la prospettiva di improbabile riduzione delle imposte

Caro direttore, dopo tanti discorsi vaghi e inconcludenti, sembra opportuno cercare di «mettere con i piedi per terra» il dibattito sulla «riforma fiscale» , termine ambiguo che continua a riproporre la prospettiva di improbabile riduzione delle imposte. Con una pressione fiscale del 42-43% del Pil (Prodotto interno lordo) l’Italia è un Paese ad alta tassazione, a livelli superiori alla media europea, ma analoghi a quelli degli altri grandi Paesi (Francia, Germania) e delle nazioni del Nord dell’Europa. Tuttavia, se si tiene presente che circa 13 punti di gettito derivano da contributi sociali destinati al pagamento delle pensioni, risulta che le tasse in senso stretto sono il 29%del Pil, ammontare destinato a finanziare tutti i servizi degli investimenti pubblici, più gli interessi passivi e il deficit degli enti previdenziali (assistenza). Poiché la spesa per interessi e pensioni (debiti contratti in passato) è in Italia più elevata di 3-5 punti di quella degli altri Paesi europei, non sembra agevole conciliare la riduzione delle imposte con il pareggio del bilancio, per quanti sforzi si facciano dal lato delle spesa. Stando così le cose, non è neanche da escludere un incremento delle imposte, anziché una loro riduzione. Il sistema fiscale italiano non è strutturalmente diverso da quello degli altri Paesi: le imposte sono le stesse e anche le aliquote sono molto simili. Esistono tuttavia differenze non trascurabili tra il fisco italiano e quello degli altri Paesi europei: 1) L’evasione, molto più alta in Italia che sugli altri Paesi (salvo la Grecia): 120 miliardi di €, circa l’ 8%del Pil, da due o tre volte di più della media europea. 2) Il peso eccessivo dell’imposta personale sul reddito soprattutto per quanto riguarda i redditi da lavoro dipendente, con ovvi effetti negativi sul costo del lavoro e il cuneo fiscale (si tratta di circa 2 punti di Pil); nel periodo compreso tra il 1980 e gli anni più recenti, infatti, il peso delle ritenute alla fonte sui redditi di lavoro dipendente (e pensioni) rispetto alla imposte dirette è aumentato dal 40%circa al 52%, mentre i pagamenti in sede Irpef dei redditi non da lavoro dipendente (autonomo, impresa, partecipazione...), più il gettito delle imposte sostitutive (dell’Irpef) sui redditi da capitale, si sono ridotte dal 37%al 24%! E ciò mentre la quota dei redditi di lavoro dipendente sul valore aggiunto totale calava dal 66%al 53%. Queste cifre evidenziano un’impressionante redistribuzione dei redditi tra categorie e settori della economia. 3) La minore incidenza in Italia del prelievo sui consumi (l’Iva) che è però determinata esclusivamente dalla maggiore evasione. Sarebbe quindi un errore grave aumentare le aliquote Iva per finanziare sgravi Irpef e Ires sia perché non è vero che le nostre aliquote sono più basse che altrove, sia per gli effetti redistributivi negativi, sia per l’impatto sui prezzi, sia per l’ulteriore incentivo all’evasione che verrebbe introdotto. 4) La ridotta tassazione sui redditi da capitale e la quasi inesistenza di un prelievo patrimoniale. Ne deriva che, poiché parlare di imposte patrimoniali (immobiliari) sembra essere un tabù sia per la destra sia per la sinistra, l’unica possibilità di redistribuzione del prelievo a parità di gettito risiede nel recupero dell’evasione (che — contrariamente a quanto si sostiene — non si è affatto ridotta) e sulla riduzione di spazi di erosione. Impresa possibile ma politicamente piuttosto delicata. Infine, per quanto riguarda il prelievo sulle imprese è da condividere la proposta del governatore Draghi, che nell’ultima relazione ha affermato: «Per incentivare il ricorso al capitale di rischio, andrebbe ridotto... il carico fiscale sulla parte dei profitti ascrivibile alla remunerazione del capitale proprio» . Si tratterebbe, cioè, di reintrodurre la Dit (Dual income tax) prevista nella riforma del 1997 e soppressa nel 2001 con conseguenze molto negative sulla struttura produttiva del Paese e, ciò che è più sorprendente, senza nessuna resistenza da parte del mondo delle imprese. ex ministro delle Finanze e del Tesoro