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 2011  giugno 11 Sabato calendario

«Ieri pomeriggio verso le sette mi avete detto che eravamo già a venticinque metri. Ora è passata tutta la notte, sono le sette di mattina e siamo sempre a venticinque metri

«Ieri pomeriggio verso le sette mi avete detto che eravamo già a venticinque metri. Ora è passata tutta la notte, sono le sette di mattina e siamo sempre a venticinque metri. Il bambino sta a trentasei. Quando arriviamo? Tra una settimana? Dieci giorni?» . Fu allora che il cronista del Tg1 Maurizio Beretta si rese conto che Franca Rampi, parlando con i soccorritori, dava le spalle alla telecamera. E piano piano girò la poveretta perché fosse inquadrata per bene. Scusi tanto, è la diretta... Sono passati trent’anni, da quei giorni in cui il paese intero si inchiodò alla televisione per seguire i disperati tentativi di salvare Alfredino Rampi a Vermicino, nell’agro romano ai piedi di Frascati. Oltre 19 milioni di italiani sono nati «dopo» e larga parte di questi probabilmente non sa nulla di quel bimbo di sei anni che, scivolato in un pozzo artesiano di 30 centimetri di diametro lasciato scoperto per una criminale sciatteria e precipitato a 36 metri di profondità, fece scattare la più caotica, sgangherata, generosa, sventurata e pazza operazione di salvataggio mai vista in Italia. Giorni tremendi in cui si vide e si sentì di tutto, dagli "scienziati"che proponevano di andare a prendere il bambino da sotto, con un canotto lungo la falda sotterranea, all’autoconvocazione degli uomini più piccoli e più magri del Paese, compresi un nano del Circo Orfei e il «Microbo del Tufello» . Una grande avventura collettiva che tutti pretendevano avesse un lieto fine e finì invece, sotto gli occhi del capo dello Stato Sandro Pertini, di 15 mila persone accorse da ogni dove intorno al pozzo, di trenta milioni di spettatori attoniti davanti alla più lunga diretta tv di tutti i tempi, con una pesante sconfitta. Eppure la morte di quel bimbo che fino all’ultimo si era fidato di quello che i «grandi» gli promettevano da lassù soprattutto attraverso la voce del pompiere Nando Broglio che cercava di tranquillizzarlo con la canzoncina di Mazinga, non fu soltanto uno strazio dei genitori e dell’Italia intera. Fu anche il momento di due svolte. La prima, assai discussa, fu quella della tivù che mai prima si era buttata con tanta risolutezza su un episodio di cronaca nella convinzione che, dopo tante sofferenze, sarebbe arrivato l’ «happy end» , coi telecronisti a sventolare parole mille volte rimpiante: «La mamma correrà immediatamente ad abbracciare il bambino per cui sarà impossibile seguirla con un microfono a filo. Faremo l’impossibile. Siamo qui vivendo questi ultimi minuti di attesa» . «Mancano otto minuti» . «Mancano sei minuti soltanto» . La seconda svolta, motivata dal rabbioso sconcerto per la fatale improvvisazione dei soccorsi, fu la consapevolezza che l’Italia, già stordita mesi prima dal caos delle operazioni d’emergenza dopo il terremoto in Irpinia, doveva finalmente dotarsi di una Protezione Civile pronta ad intervenire al primo allarme. A quel bambino, che in quei giorni fu «il figlio di tutti noi, trenta milioni di persone chiamate a raccolta dalla sua voce dal fondo della terra» , Walter Veltroni ha dedicato un libro, L’inizio del buio (Rizzoli). In cui ha ripercorso passo passo tutta la storia di quel tragico «reality» scoppiato tra le mani dei telecronisti, dei direttori dei Tg, dei dirigenti Rai presi d’assalto da migliaia di telefonate di cittadini angosciati dalla sorte di quel piccolo, che aveva fatto irruzione nella vita di tutti con una foto su «Paese sera» in cui rideva in spiaggia con la canottiera a righe e prima ancora con quella invocazione (una «voce di passero» che saliva dall’abisso, scrisse Giulio Nascimbeni sul «Corriere» ) raccolta da un microfono calato nel pozzo. Era un «bambino blu» , Alfredo Rampi. Affetto dalla nascita dalla tetralogia di Fallot: «Si respira male, tutto fa fatica. È come se si portasse sulle spalle uno zaino di trenta chili» . Eppure riuscì miracolosamente a resistere, incastrato là sotto, per due giorni e due notti. E alla sua tragedia, Veltroni accosta quella parallela di Roberto Peci, fratello del «pentito» Patrizio, rapito a San Benedetto del Tronto da un commando brigatista alla stessa ora dello stesso giorno in cui il bambino cadeva nel pozzo di Vermicino. Nella hit parade c’era allora una canzone di Loretta Goggi, «Maledetta primavera» . E fu maledetta sul serio, ricorda l’ex sindaco di Roma, sempre più a suo agio nel ruolo di scrittore: le pistolettate di Alì Agca al papa a San Pietro, lo scandalo per la scoperta della loggia P2, il sequestro da parte delle Br dell’assessore campano ai lavori pubblici Ciro Cirillo... Un capitolo sul bambino blu, uno sul fratello del brigatista rosso, uno sul bambino blu, uno sul fratello del brigatista rosso. E seguendo i due percorsi umani, destinati a chiudersi in entrambi in modo tragico, Veltroni racconta la storia di un’Italia che non gli piace. Capace di commuoversi fino alle lacrime, come fosse dentro un film, per quello scricciolo inghiottito dalla terra a Vermicino (al punto che quando il corpo del piccolo fu finalmente estratto, decine di persone passarono la notte davanti all’obitorio per vedere il «loro» Alfredino) e di restare invece indifferente davanti all’annegamento contemporaneo di due fratellini in un pozzo a Siracusa e più ancora alla ferocia del «processo proletario» al quale era sottoposto Roberto Peci. Anche quella, come si può vedere oggi perfino su YouTube, fu una tragedia offerta in presa diretta ai telespettatori. Giovanni Senzani, l’ambiguo consulente della polizia e capo brigatista «in buoni rapporti con servizi e camorra e ’ ndrangheta» , volle che gli interrogatori, violenti al punto di spingere quel ragazzo di 24 anni che aveva la sola colpa di essere fratello di Patrizio Peci, a confessare quello che volevano fargli confessare, fossero ripresi con una telecamera. La stessa uccisione del poveretto, in un casale abbandonato della periferia romana a una decina di chilometri da Vermicino, fu fotografata. Eppure, del destino di quel ragazzo strappato alla moglie e alla figlioletta che portava in grembo e che avrebbe sentito la voce di suo padre solo in quei filmati orribili del «processo» , non importò niente a nessuno. Era fratello di un brigatista. Fine. Magari, vai a saperlo, c’entrava un po’ anche lui. Fine. Resta, di quelle due tragedie che segnarono a carissimo prezzo la nascita della Protezione Civile e la fine delle Brigate Rosse, una ferita dolorosa. Che trent’anni dopo, solo a toccarla, butta ancora sangue. Resta la foto dell’assassinio di quel papà che non avrebbe mai visto la figlioletta con una didascalia in burocratese brigatista («l’unico rapporto della rivoluzione con i traditori è l’annientamento» ) ferocemente insensata. Resta il video di Angelo Licheri che riemerge distrutto dal pozzo dopo essere riuscito a raggiungere il bambino, sprofondato giù per le vibrazioni della trivella che scavava il pozzo parallelo, ma non a tirarlo su: «L’ho legato, rilegato, ma mi scivolava. Gli ho pulito gli occhietti dal fango»