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 2011  giugno 10 Venerdì calendario

Epstein Denise

• Parigi (Francia) 9 novembre 1929. Figlia della scrittrice Irène Némirovsky (1903-1942) • «Nell´agosto ’44, a Parigi, alla Gare de l’Est, arrivarono i treni che riportavano a casa quei fantasmi macilenti che erano i pochi sopravvissuti ai Lager nazisti, molti dei quali in barella. Denise Epstein, figlia di Irène Némirovsky, era lì con la sorella Elisabeth ad aspettare la madre e il padre Michel Epstein. All’arresto della madre, il 13 luglio 1942, Denise aveva tredici anni ed Elisabeth cinque. Da allora divennero due piccole mendicanti in fuga. Ora speravano con ogni forza che il loro calvario stesse per finire. Ma dopo un po’ se ne andarono. Non solo non avevano visto i genitori, ma si resero conto che, ridotti in quello stato, non li avrebbero mai riconosciuti. Li avevano persi per sempre, ogni speranza era caduta. Così racconta Denise Epstein nel suo Sopravvivere e vivere, lunga intervista a Clémence Boulouque [...] Denise decise allora, con eccezionale pietas filiale, di copiare a mano il manoscritto, conservato in una valigia consegnatale dal padre, di quella Suite Francaise della madre che uscirà poi nel 2004 con enorme clamore» (Laura Lilli, “la Repubblica” 5/6/2010) • «Non perdona la Francia, e come potrebbe? [...] “Volevano darmi la Legion d’Onore, l’ho rifiutata”. A guardarla [...] scricciolo di 42 chili dal naso importante e il viso segnato dall’esistenza, vien da domandarsi come abbia fatto a trascinarsi appresso — dal luglio ’42 all’agosto ’44 —, braccata dalla polizia di Vichy e dalla Gestapo, il pesantissimo bagaglio affidatole da papà Michel, la valigia con dentro le cose più preziose della mamma: fotografie, carte, un po’ di biancheria, e “il quaderno”. Ma poi basta parlare un pomeriggio e una sera con Denise Epstein per capirne il segreto: alla faccia dei 42 chili, il peso specifico di questa donnina minuscola ed elegante è di alcune tonnellate. È il peso specifico ad averle permesso, 13enne, di sopravvivere all’arresto della madre [...] e subito dopo alla deportazione del padre, e al doversi occupare, completamente sola, della sorellina Elisabeth di cinque anni. Ignara di essere già orfana. [...] “Qualche anno fa, mi hanno rubato i documenti, sono andata al commissariato per sporgere denuncia, quindi al Comune per chiedere i duplicati. Mi hanno detto ‘no, lei non è francese. Suo padre è nato a Mosca, sua madre è di Kiev, non è possibile rifare i documenti’. Le famigerate leggi contro l’immigrazione...”. Si è rivolta allora alla Corte d’Appello per ottenere un certificato di nazionalità: “Sono nata a Parigi, ho sempre avuto documenti francesi, ho sempre votato...”. Così si è convinta di avere fatto più che bene a condividere, da militante indefessa, le lotte dei sans papiers. “I francesi si riempiono la bocca di accoglienza e solidarietà. Parole. Io voglio stare vicino agli oppressi. Non per compassione, no, concetto troppo giudaico-cristiano. Ma perché ho una coscienza. Sono una che ancora si arrabbia, e la rabbia rende liberi”. Libera come il giorno che la guerra finì e lei fece a pezzi i documenti falsi riprendendo immediatamente il nome vero, Epstein. Nel 1939 la sua famiglia si fece battezzare. “Il giorno della Liberazione non ci ho messo molto a rendermi conto che dovevo dire chiaro e forte che ero ebrea, senza pormi il problema dell’ebraismo, che è cosa ben diversa”. Definirsi ebrea e non avere alcun interesse per l’ebraismo? “Ho sempre pensato che in nome di Dio— qualunque nome gli si dia— le religioni e gli uomini commettono orrori. Non riesco a credere in un Dio che ha permesso la Shoah”. Ebrea per ripicca. “Non voglio dimenticarmi mai che milioni di persone sono stati eliminati unicamente perché erano una certa cosa: ebrei. Rinunciare alla ‘giudeità’ è ucciderli una seconda volta [...] Un giorno, stavo andando in sinagoga per Kippur, ero sull’autobus, per strada si vedevano camminare uomini con la kippà in testa. La signora vicino a me dice a un’amica: ‘Hai visto quanti ce ne sono ancora?’. Vi rendete conto? Ha detto proprio ‘hai visto quanti ce ne sono ancora!’ [...]”» (Stefano Jesurum, “Corriere della Sera” 21/5/2010).