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 2011  giugno 10 Venerdì calendario

’NDRANGHETA A TORINO, L’OMERTA’ DELLE IMPRESE

«Gli occhi dei calabresi sono dappertutto». Questo fu l’approccio, tempo fa, di un affiliato alla ‘ndrangheta con un imprenditore edile torinese impegnato a costruire villette a schiera alle porte della città, in una zona dove riteneva di non dover subire richieste estorsive. A questo genere di attività, strategica per una mafia interessata a colonizzare il territorio ovunque gli riesca di penetrarne il tessuto economico e le relazioni con i politici locali, sono riservate oltre 500 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare dei 150 ‘ndranghetisti individuati a Torino.

Sono decine gli imprenditori vessati, molti di loro non hanno mai sporto denuncia. Come si fosse intorno all’Aspromonte, non nel Torinese. Si è arrivati a loro seguendo le conversazioni intercettate dei malavitosi. Dopo la retata che ha azzerato il vertice dell’organizzazione criminale, i carabinieri del colonnello Antonio De Vita devono ora raccoglierne le deposizioni. Diventa chiaro il senso dell’appello lanciato nella conferenza stampa dell’altro giorno dal viceprocuratore nazionale antimafia Antonio Patrono: «Piemontesi non abbiate paura, denunciate i vostri persecutori».

Afferma il gip Silvia Salvadori: «Gli episodi di estorsione scoperti testimoniano lo stato di assoggettamento delle vittime e dimostrano che, forti della nota appartenenza alla consorteria criminale, gli estorsori non debbono neppure più ricorrere a violenze e minacce per ottenere risultati. Gli investigatori danno atto dell’esistenza di una forte situazione di omertà, derivante da tale assoggettamento, che rappresenta l’unica spiegazione al fatto che le denunce siano pochissime e ancor meno quelle spontanee. In particolare, due sono gli ambiti in cui le indagini hanno portato alla luce questi meccanismi: quelli delle imprese edili e dei locali di intrattenimento».

Valle di Lanzo, si deve risistemare l’alveo del torrente Stura che l’attraversa. Si aggiudica l’appalto il consorzio Italimprese di Potenza e si aprono i cantieri. Dove si presentano - siamo fra il 2004 e il 2005, all’inizio di queste indagini - due degli arrestati di due giorni fa. Dicono che «dovevamo fare noi i lavori» e di non aver potuto perché erano stati arrestati «diversi imprenditori e loro colleghi» informa il gip per sottolineare il gesto compiuto subito dopo dai due ’ndranghetisti con il capocantiere: «Gli mostrano l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Adolfo Crea e Vincenzo Argirò e altri. Gli dicono “questo siamo noi”, “tu puoi solo pagare (50 mila euro) o andare dai carabinieri”. Aggiungono che loro sono soliti bruciare escavatori...». L’imprenditore ricattato si presenta in una stazione dell’Arma a Torino ma rifiuta di ufficializzare la denuncia.

La ‘ndrangheta impone anche al Nord le «guardianie» nei cantieri edili e nei locali di intrattenimento. Niente di più e di diverso da un’offerta di «protezione» agli imprenditori che «cominciano a versare il loro “obolo” mensile - registra il giudice - per poi consegnare nel tempo l’intera propria attività al mafioso».

È un sistema progressivo di appropriazione che viene applicato con imprenditori che hanno ruoli politici. È il caso di Nevio Coral, un pezzo grosso nel centrodestra torinese, arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa. I suoi rapporti con la ‘ndrangheta nascono dall’accettazione da parte sua della guardiania, poi Coral diventa il «giocattolo» che in tanti nell’organizzazione si contendono per utilizzarlo come «biglietto da visita» con il sistema bancario e quello degli appalti. Subentra anche un «avere» da parte di Coral. Lo spiega il capo locale di Cuorgnè, Bruno Iaria, ad un complice: «Lui ci fa il favore che abbiamo preso il lavoro e noi gli diamo una mano in politica».

Molti degli arrestati sono imprenditori. Ma si dividono fra quelli finti, che hanno creato imprese di copertura , e chi ne ha create di vere (10 sono le aziende sequestrate in questi giorni). È il caso di Giovanni Catalano, fratello del padrino torinese della ‘ndrangheta, in carcere insieme da un anno. Il figlio Luca ha raccolto nei mesi scorsi 180 firme di solidarietà nei confronti del padre fra clienti della loro impresa fornitrice di calcestruzzo e imprenditori del settore, qui nel Torinese. Centottanta persone disposte a metterci la faccia in un affare del genere da queste parti sono una novità.

Luca Catalano è un giovane ingegnere che ha dovuto rinunciare all’elezione nella lista Pdl al consiglio comunale di Orbassano, hinterland torinese, dopo l’arresto del padre. Pur non essendo indagato, anche di lui si occupa l’Operazione Minotauro dei carabinieri, perché è Catalano junior ad accompagnare la candidata Pdl alla presidenza della Provincia, nel 2009, a conoscere lo zio e un altro uomo di vertice della ‘ndrangheta a Torino nel bar del primo. Periferico e anonimo. Come il volto apparente dell’organizzazione criminale in città.

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"Il meccanismo: dall’iniziale offerta di protezione alla «confisca» dell’attività «Gli estorsori non devono neppure più ricorrere a violenze e minacce per ottenere dei risultati»"

"Silvia Salvadori Giudici indagini preliminari"

"127 immobili sequestrati"

"agli affiliati"

"della ’ndrangheta nell’operazione «Minotauro»"

"dei carabinieri compiuta in Piemonte"

"117 milioni di euro"

"È il valore totale dei beni sequestrati agli affiliati della ’ndrangheta nell’inchiesta"

"Il figlio di un boss ha raccolto la firma di impresari in solidarietà al padre in galera"

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TONIA MASTROBUONI
Professor Varese, cosa pensa del maxi blitz contro le cosche piemontesi?
«È impressionante la conferma del controllo capillare, da parte della ‘ndrangheta, di mercati legali come l’edilizia e il movimento terra. È chiaro che per avere accesso agli appalti bisognava passare attraverso questi personaggi. Come è inquietante l’importanza dei politici locali di ogni colore in questa inchiesta. È la conferma che la caratteristica vincente della mafia è che non ha colore politico».
L’impressione, in questa come in altre vicende recenti di intreccio tra affari e mafie, è che l’omertà non sia data solo dalla paura, ma ormai anche dalla convenienza.
«È assolutamente così. È una combinazione. Sicuramente la ‘ndrangheta usa la violenza, ma il dramma è che una fetta dell’economia ci guadagna. È la convenienza delle imprese locali a espellere i concorrenti dal mercato che apre opportunità alle mafie. È per questo che non le abbiamo ancora sconfitte. Il caso degli anni scorsi di Bardonecchia, per rimanere in Piemonte, era proprio quello. Uno: la mafia elimina i concorrenti. Due: fornisce manodopera in nero e a basso costo».
E cosa si può fare per sconfiggerla?
«La concorrenza deve essere protetta e difesa. Se il boss tenta di espellere un’azienda, lo Stato deve essere lì, pronta a difenderla ».
Ci sono mercati più vulnerabili di altri?
«Ci sono mercati per loro natura poco aperti alla concorrenza e più accessibili, per le mafie come, appunto, l’edilizia o il movimento terra. La scommessa per lo Stato è mantenerli concorrenziali rendendo più semplice la denuncia, monitorandoli».
Lei ha descritto il Veneto come un’area dove le mafie non attecchiscono. Perché?
«Perché è un’area dove le imprese sono molto orientate all’export. E mentre le ‘ndrine possono offrire protezione sul territorio, è complicato per loro agire in Germania o in Australia. E badi bene che il senso civico in Piemonte o in Lombardia è lo stesso: la mia tesi è che il senso civico, da solo, non è un antidoto contro l’insediamento delle mafie».
La mafia quindi è un servizio?
«Fino a poco tempo fa era un’eresia dirlo ma dobbiamo arrenderci dinanzi ai fatti. Sì, le mafie offrono servizi e le aziende hanno sempre meno pudore ad approfittarne».
La testa delle ‘ndrine è ancora in Calabria? Nei suoi studi lei racconta il tentativo di alcuni boss mafiosi al Nord di staccarsi dalle terra d’origine.
«Anche stavolta mi sembra che il marchio di fabbrica di questi clan sia il fatto che la testa continui ad essere a San Luca, in Calabria. Anche se negli affari sono autonomi, mantengono un forte legame con il paese d’origine. Nelle indagini degli anni scorsi è emerso che in Piemonte non era stata neanche creata una Camera di consiglio mafiosa come ad esempio in Lombardia».
Però in Lombardia il tentativo di rendersi troppo indipendenti dalla Calabria è costata la vita al boss Novella.
«Esatto. Il principio è sempre che gli affari si gestiscono sul luogo ma poi una volta all’anno si va in Calabria a renderne conto. I boss al Nord sono autonomi ma devono avere il permesso di esistere da San Luca. Questo vuol dire una cosa sola: che per sconfiggere la ‘ndrangheta al Nord bisogna sconfiggerla in Calabria. D’altra parte è preoccupante è che Caselli abbia detto che è solo l’inizio».
Cosa vuol dire?
«Evidentemente la presenza delle ‘ndrine in questa area è forte. La mia impressione è che la Val d’Aosta sia finita nel radar dei pm. Non dimentichiamoci la grande importanza dell’edilizia anche lì».

FRANCESCO GRIGNETTI
Centrotrentuno articoli, cinque libri, un solo codice per contrastare la mafia. Erano anni che gli esperti del settore lamentavano la confusione di troppe leggi. Ora il codice unico c’è, frutto della collaborazione tra ministeri della Giustizia e dell’Interno. E’ un decreto licenziato dal governo che ha bisogno di un vaglio parlamentare e che entro 60 giorni deve diventare legge definitiva dello Stato. Assieme alla semplificazione del processo civile, riducendo i riti da 32 a 3 (rito del lavoro, rito ordinario di cognizione e rito sommario per processi con evidenti prove), semplificazione effettuata anch’essa per decreto ieri, il codice unico antimafia è l’ultimo impegno che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha voluto assolvere prima di lasciare la sua carica. Un impegno d’onore per l’intero governo. «Continuiamo sulla lotta alla mafia», proclama infatti Berlusconi in conferenza stampa. «Continuiamo con lo sforzo comune basato sulle nostre leggi e sul lavoro dei magistrati». E chissà se gli è pesato questo elogio dei giudici. Ma intanto: «Abbiamo arrestato 8 presunti mafiosi al giorno, 8.466 in tutto, tra i quali 34 pericolosi latitanti in 800 operazioni di polizia. E sono stati confiscati beni per 21 miliardi e mezzo».

La riscrittura delle norme porta alcune novità. Aumentano i poteri dei prefetti. Nasce poi una Banca Dati presso il ministero dell’Interno per agevolare l’assegnazione degli appalti pubblici. Le novità arrivano con il Libro Terzo, quello dedicato alla documentazione antimafia. Il ministro Maroni spiega con queste parole i nuovi poteri dei prefetti: «Potranno desumere elementi sulle attività delle aziende, così da rendere più sicuri gli appalti pubblici». Gli fa eco Alfano: «Fatti e non parole: abbiamo ottenuto un risultato atteso da decenni. Non abbiamo proceduto per semplice collazione, ma abbiamo dato un’anima trasferendo norme del codice penale nel codice antimafia».

La prima delle sfide nel preparare il nuovo codice era l’armonizzazione tra le ultime norme, quelle contenute nei due Pacchetti criminalità del 2009 e 2010, con il corpus delle norme precedenti. In futuro, quindi, le Direzioni distrettuali antimafia avranno per competenza anche le indagini patrimoniali e il potere di proporre le misure di prevenzione. Potranno applicare separatamente le misure patrimoniali e personali. E i patrimoni mafiosi potranno essere aggrediti anche in caso di morte del mafioso. Si rafforzerà il ruolo del Procuratore nazionale antimafia (che potrà applicare propri magistrati alle procure distrettuali anche per la trattazione di singoli procedimenti di prevenzione) e si conferma il ruolo dell’ Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

Le norme penali, contenute nel Libro I, non presentano nulla di nuovo. Ci sono i tre reati tipici delle organizzazioni mafiose (associazioni per delinquere di tipo mafioso, anche straniere; scambio elettorale politico-mafioso; assistenza agli associati), le aggravanti di mafia, le misure di sicurezza e la confisca obbligatoria sia dei proventi da reati mafiosi, sia dei beni di cui il mafioso non può giustificare la provenienza. Quanto alle misure di sequestro e confisca dei beni, si prevedono termini di durata del sequestro di prevenzione: la misura perde efficacia se il procedimento di primo grado o il procedimento di appello durano ciascuno più di 1 anno e mezzo. I termini possono essere prorogati di 6 mesi e per non più di due volte in caso di indagini complesse. Si rivedono anche gli aspetti di tutela dei terzi o gli effetti fiscali. Importantissimo il capitolo sulle revoche di confisca: saranno possibili solo in casi eccezionali e comunque i Comuni non dovranno avere il timore di dover restituire palazzi o terreni perché l’eventuale restituzione avverrà in denaro. E’ stato aggiornato, infine, ampliandolo, l’elenco delle situazioni dalle quali si desume il tentativo di infiltrazione mafiosa. Ora si prevedono nuove ipotesi suggerite dalla triste esperienza di Comuni sciolti per l’aggressione delle cosche.
"21,5"

"Miliardi di euro"

"Il valore totale dei beni sequestrati alle mafie e messo a disposizione del fondo per la giustizia"

"455"

"Latitanti arrestati"

"Dal 2008 alla fine di maggio. Tra loro ci sono anche 32 dei 34 latitanti giudicati più pericolosi"

"Le direzioni distrettuali avranno competenza anche nelle indagini sui beni dei mafiosi"