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 2011  giugno 10 Venerdì calendario

«BERLUSCONI IGNORA LE DIFFICOLTA’ DELL’ITALIA»

Dieci anni fa venne giudicato unfit , inadatto a guidare l’Italia. Nel 2011, Silvio Berlusconi è diventato «l’uomo che ha fregato un intero paese». L’ Economist , il settimanale inglese della classe dirigente internazionale, sceglie parole durissime per fare il punto sull’Italia mentre si festeggiano i 150 anni d’unità.
Sul Cavaliere non cambia idea, casomai la peggiora. «Nonostante i suoi successi personali è stato un disastro come leader nazionale». Tre i capi di imputazione. Primo: la «scandalosa saga» dei festini noti come bunga bunga con le relative accuse di aver pagato per fare sesso con una minorenne che però ha avuto impatti limitati sulla performance da politico. Secondo punto: «i suoi intrallazzi finanziari» che lo hanno portato a una dozzina di processi per frode, truffa contabile e corruzione. E «non è vero» quel che dicono i suoi legali, ossia che non è mai stato condannato. Le condanne sono state «messe da parte» per la prescrizione, «almeno due volte perché lo stesso signor Berlusconi ha cambiato la legge».
Quello che però l’ Economist proprio non riesce a perdonargli è il terzo «difetto», «di gran lunga il peggiore»: la «totale indifferenza per le condizioni economiche». Forse «a causa dei suoi impicci legali, in quasi nove anni da primo ministro ha fallito nel trovare un rimedio o perfino a riconoscere le gravi debolezze economiche» del Paese. Che, col suo 0,25% annuo, ha una crescita superiore solo a quella di Zimbabwe, Haiti e simili. Se i mercati hanno graziato l’Italia è merito della «politica fiscale restrittiva» di Giulio Tremonti. Ma il malato Italia è cronico.
A Londra ritengono che l’unico modo per invertire la rotta sia una cambio di governo: «E se i successori di Berlusconi fossero negligenti come lui?». Commenta sornione Giuliano Amato: «L’ Economist scrisse che Cavour era il più grande statista italiano. Aspetto la prossima volta che l’ Economist lo scriverà ancora...».

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DIECI ANNI DI POLEMICHE -
BILL EMMOTT
Se qualcuno, dieci anni fa, mi avesse detto che nel 2011 avrei scritto regolarmente editoriali per un giornale italiano e che avrei pubblicato un libro sull’Italia, avrei risposto che era matto.
Dopo tutto, come direttore di The Economist, stavo viaggiando molto in America e in Asia, ma non in Italia, e il mio personale passato di scrittura riguardava il Giappone. Ma poi, quasi esattamente dieci anni fa, all’Economist abbiamo pubblicato la nostra nota copertina, dichiarando che Silvio Berlusconi era «inadatto» a governare l’Italia. E, anche se io allora non lo sapevo, la mia vita stava per essere cambiata da quella copertina.
In un primo momento pensavo che sarebbe cambiata semplicemente per la necessità di evitare gli italiani: per molti di loro The Economist, e quindi il suo direttore, era diventato il nemico pubblico numero uno. Questo era vero anche per molti lettori che in realtà non sostenevano il Cavaliere: erano indignati perché una pubblicazione straniera aveva osato prendere una posizione così forte sulle elezioni italiane e sul suo probabile prossimo presidente del Consiglio. Molti lettori, tuttavia, ne furono davvero felici. Berlusconi, naturalmente, non era tra questi, anche se sostenne di essere un ex abbonato. Mostrò la sua mancanza di gioia chiamandoci «comunisti», e il suo quotidiano Il Giornale rafforzò questo punto di vista pubblicando la mia foto in prima pagina e facendo notare che assomigliavo a Lenin. Quindi intentò la prima di due cause per diffamazione contro la rivista. Dieci anni dopo guardo a quelle origini della mia nuova vita legata all’Italia con un misto di orgoglio e di perplessità. Orgoglio perché gli organi di stampa dovrebbero battersi per principi importanti e fare del loro meglio per dire la verità, ed è quello che stavamo facendo. Ma anche perplessità a causa del ruolo insolito e difficile assegnato in Italia ai critici e ai commentatori stranieri. Quel ruolo, di cui ora beneficio, è molto lusinghiero. Ma non sono del tutto sicuro su come interpretarlo.
Sotto questo aspetto l’Italia è sorprendentemente simile al Giappone. La maggior parte dei Paesi presta poca attenzione a ciò che gli stranieri dicono o scrivono su di loro. I media britannici raramente riportano quello che i media francesi, americani o italiani dicono della Gran Bretagna. La Francia praticamente non riconosce alcun ruolo ai commentatori stranieri. E in realtà neppure l’America, anche se l’immigrazione rende difficile definire chi è del luogo e chi è straniero. Ma sia il Giappone che l’Italia sembrano prestare molta più attenzione degli altri alle idee e alle analisi degli stranieri sul loro Paese.
Perché? La risposta, ho concluso, è che i critici stranieri sono utilizzati in un mix di modi buoni e cattivi. Positivo è il sentimento, autentico, che nessun Paese detenga il monopolio della conoscenza o del giudizio, da qui un interesse genuino a imparare dalle idee e dalle esperienze di altre persone.
Il modo sbagliato, invece, va in una direzione del tutto diversa: in entrambi i Paesi il dibattito politico è molto parrocchiale e ripiegato su se stesso, e tanto il Giappone quanto l’Italia oppongono abbastanza resistenza a partecipare pienamente a ciò che chiamiamo globalizzazione. Di conseguenza, i critici stranieri sono spesso usati come strumenti in una disputa essenzialmente interna, come armi politiche per aiutare una parte o l’altra. In tale uso la necessità di un’arma è più importante di quello che il critico straniero sta in effetti dicendo.
Nel mio libro «Forza, Italia: come ripartire dopo Berlusconi» sostengo che c’è una «buona Italia» e una «mala Italia», e che l’equilibrio tra le due deve essere cambiato. Ci sono così tante energie positive e idee da liberare. Dopo dieci anni di articoli sull’Italia, prima come nemico pubblico numero uno del centro-destra, poi come quello che Il Giornale ha definito un «anti-italiano», quindi come ricercatore delle eccellenze e delle potenzialità dell’Italia, sento anche che l’equilibrio tra il buon uso dei commenti stranieri e il cattivo uso deve cambiare.
Con questo voglio dire che le analisi degli stranieri sull’Italia, sui suoi problemi e sulle sue potenzialità, potrebbero essere di maggior profitto per i lettori e gli opinionisti italiani se si accantonasse la parzialità politica. Gli stranieri, scrivendo di un altro Paese, hanno molti punti deboli: soprattutto l’ingenuità e l’ignoranza delle sottigliezze. Ma la loro forza può e deve essere la loro indipendenza dalla politica interna e dalle parti.
Il grande merito del discorso agli azionisti tenuto il 31 maggio dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi sta nel fatto che è una figura realmente indipendente, indipendente dalla politica e anzi in procinto di lasciare il Paese. Il suo discorso merita di essere letto e riletto molte volte. I suoi discorsi non sono certo le «prediche inutili» di cui si lamentava. La miglior ambizione che qualsiasi analista straniero d’Italia possa albergare nel proprio cuore è di non fare sermoni inutili.