Stefano Lorenzetto, Panorama 15/6/2011, 15 giugno 2011
LORENZETTO INTERVISTA FABRIZIO RONDOLINO
L’ultimo domicilio conosciuto di Fabrizio Rondolino, 51 anni, già uomo-immagine di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, ha gettato nella costernazione i compagni: via Gaetano Negri 4, Milano. La sede del Giornale. Che da aprile pubblica gli editoriali dell’ex cronista politico dell’Unità, collaboratore anche di Donna moderna e Vanity fair, nonché curatore del blog politico The front page insieme con Claudio Velardi, l’altro consigliere dalemiano con cui lavorò in tandem alla presidenza del Consiglio dal 1996 al 1999.
L’indirizzo di villeggiatura ha rafforzato fra i postcomunisti i sospetti di uno sbando mentale, che circolavano fin dal giorno in cui Rondolino era approdato alla Mediaset berlusconiana, prima al Grande fratello e poi a Matrix: Scotty’s Junction, Nevada, al centro della Death Valley. Abitanti: 11. Giorni di pioggia in un anno: 19. Qui, nella Valle della Morte, Rondolino s’è fatto costruire una casa da 200 mila dollari, priva di televisore e telefono, circondata dal nulla, a parte serpenti a sonagli, vedove nere e scorpioni dal veleno letale. «Ho anche adottato un simpatico coyote» si rallegra il proprietario. L’ha inaugurata a Capodanno con la moglie Simona Ercolani, autrice televisiva, e le figlie di 22 e 17 anni, che hanno già escluso di voler ripetere la traumatica esperienza a fine giugno, quando papà e mamma vi ritorneranno.
Durante il primo soggiorno la fascinazione del vuoto deve aver preso il sopravvento su Rondolino, almeno a giudicare dal titolo del libro che al ritorno ha pubblicato con Mondadori, L’Italia non esiste (per non parlare degli italiani), arricchito da un sovratitolo altrettanto programmatico: I peggiori 150 anni della nostra storia.
Premesso che sono d’accordo con lei, perché l’Italia non esiste?
Perché non è mai esistita. L’idea ottocentesca dello Stato nazione, applicata al nostro paese, ha prodotto più guai che altro. Non ci ha unificati e ha cancellato gran parte delle identità locali.
Detto da un torinese, c’è da fidarsi. Lei che avrebbe fatto, se fosse stato al posto dei padri della patria?
Un federalismo vero. Avrei fatto gli Stati Uniti d’Italia. L’unico che ha vinto è colui che sembrava sconfitto: il Papa. Alla fine l’Italia è diventata un enorme Stato pontificio.
Questo libro mi sembra un’operazione commerciale per il 150° dell’unità.
Certo che lo è. D’altra parte gli anniversari servono a questo.
A vendere?
A discutere di quello che si dovrebbe celebrare. L’aspetto surreale è che due ministri si sono astenuti e il compito di rendere omaggio all’inno nazionale se l’è dovuto assumere un comico al Festival di Sanremo.
Come giudica i risultati elettorali di Milano e Napoli?
Silvio Berlusconi ha perso malamente, il che significa che s’è aperta la corsa alla sua successione. Non prevedo una crisi di governo, né le elezioni a breve, per la buona ragione che nessuno è pronto ad affrontarle. Escludo che il Cavaliere intenda farsi da parte spontaneamente. La sinistra s’illude d’avere già vinto, dimenticando che senza un rapporto solido col centro moderato in Italia non si può governare.
E intanto lei trasloca in mezzo al niente. Che cosa cercava in una casa nel Nevada? Un periodo sabbatico all’inferno?
Magari. In realtà la passione per il deserto americano m’è venuta vent’anni fa, visitando la Death Valley e il Grand Canyon.
Costosa, come passione.
Per il volo Roma-Londra-Las Vegas spendo 1.100 euro in business class. Una casa all’Argentario mi costerebbe di più.
È sicuro di ritrovarla quella nel deserto?
Tendo a fidarmi del prossimo.
Che nella Valle della Morte non c’è.
Inesistente. L’unico vicino era uno squilibrato che raccontò al mio architetto d’essere stato mandato lì da Dio. Benedisse il cantiere di casa mia. Io non ho fatto in tempo a conoscerlo, però ho trovato i suoi resti.
Mammamia.
Che ha capito? No, non le ossa. Ho trovato una cappelletta di legno con su scritto «Church of desert». Lui è sparito.
Le ha lasciato la parrocchia.
Male non fa.
E quindi la casa più vicina quanto dista?
Sette miglia. È un bordello che si chiama Shady Lady Ranch. Costa 300 dollari l’ora. La contea di Nye, una delle poche che non ha votato per Barack Obama, è selvaggia e anarchica come il resto del Nevada. Zero fisco, niente piani regolatori. Per edificare la casa m’è bastato inviare una email al Building department della contea. La risposta è giunta il giorno dopo: «Ok, costruisci pure». Unica condizione: un solo pozzo per ogni lotto di terreno. L’acqua scarseggia. Mi hanno subito portato la luce elettrica: ho dovuto pagare soltanto i cinque pali di legno.
Aria condizionata assicurata.
Non serve. Siamo a 1.200 metri d’altitudine. D’estate al massimo fanno 35 gradi. Però molto secchi: l’ideale per le ossa di noi vecchietti. Neanche paragonabili con i 35 di Roma. Quest’inverno è nevicato.
Che fa lì dentro tutto il giorno?
Posso lavorare. Ho la padella sul tetto per il collegamento internet satellitare. Guardo il panorama. Sono tre camere, due bagni, soggiorno e studiolo. Solo vetrate, senza tende. Sei dentro, ma sei fuori. Dopo due giorni perdi il senso del tempo e dello spazio, il paesaggio comincia a rivelarti nuovi dettagli. Silenzio assoluto. Di notte, stellate vertiginose. È un ansiolitico e un antidepressivo insieme. Fa molto bene al cervello.
Infatti al ritorno ha deciso che era pronto per passare al «Giornale».
Io sarei rimasto alla Stampa, anche per ragioni affettive. Ma il nuovo direttore, Mario Calabresi, per un anno e otto mesi non ha mai risposto né alle mie email né alle mie telefonate. Mi piacerebbe dire che Alessandro Sallusti m’ha cercato. Invece sono stato io a chiedergli ospitalità. Me l’ha concessa subito. Al Giornale mi trovo benissimo, anche se spesso non ne condivido le scelte.
Qualcuno le ha tolto il saluto?
La mia pagina su Facebook s’è riempita d’insulti. Mi considerano un traditore che l’ha fatto per denaro. Mi danno del voltagabbana, ma io sono abbastanza oltre la divisione fra destra e sinistra.
Come e perché diventò comunista?
Mah, ero ragazzino... avevo 16 anni... mi piaceva... (Si fa esitante). Oh, ma lo sa che questa è la domanda delle cento pistole? Perché diventai comunista... Mi sentivo di sinistra. Venivo da una famiglia borghese che votava per il Psi. Nel 1976 la scelta era fra democristiani, comunisti e gruppettari. Del Pci mi piacevano due aspetti contraddittori: l’ordine da grande armata, la gerarchia interna, un’altra Chiesa insomma, e l’idea di rivoluzione, la fede nella possibilità di un sovvertimento per costruire un mondo migliore. Da qualche anno penso invece che esistano soltanto soluzioni individuali e quindi cerco di comportarmi meglio io. Ho rinunciato a rifare l’umanità.
Ha studiato alla scuola delle Frattocchie?
Un paio di corsi li ho frequentati.
Adesso come si definirebbe?
Un libertario. Un jeffersoniano, per dirlo all’americana. Il mio mondo ideale è fatto di minuscole comunità che si autogovernano. Con l’Onu e il Fondo monetario sullo sfondo a dirimere le grandi questioni.
È un bossiano senza saperlo.
Anche un po’ sapendolo. Lo Stato non deve occuparsi di me. Altro che legge sul fine vita! Manco il matrimonio vorrei statale. Di Umberto Bossi mi ripugna la xenofobia. Il bello delle civiltà evolute nasce dalla mescolanza di etnie in cui ognuno continua a parlare il proprio dialetto.
Per chi vota?
Alle ultime politiche Pd. Una volta Rosa nel pugno. Alla Regione Lazio per Emma Bonino. Se il Partito democratico finirà prigioniero di Nichi Vendola e di Antonio Di Pietro, la prossima volta resterò a casa.
Vendola non è il nuovo che avanza?
No, tant’è che stava nella Fgci con me nel 1985. È antico come la sua idea di sinistra.
Di Pietro neppure?
È l’unica colpa che non perdono a Walter Veltroni: avere fatto l’accordo elettorale con lui. Un figuro di cui penso tutto il male possibile. Male politico, capiamoci, perché non bisogna odiare le persone.
«Verrà un tempo in cui ci si ritroverà tutti nella nuova casa della sinistra» profetizzava giusto dieci anni fa. Non molto azzeccato come vaticinio.
Direi che ho sbagliato in pieno. Pensavo al Pd. Non ha funzionato.
Perché?
Perché sono sempre gli stessi. Vale anche per il Pdl. Gli ex comunisti e gli ex democristiani non possono fare un nuovo partito. Quindi bisogna sperare nei Matteo Renzi e in quelli di cui ancora non conosciamo il nome e il cognome.
Si arruola fra i rottamatori?
Per carità! Non amo la furia nuovista. Ci sono in giro un sacco di ventenni deficienti, ma proprio deficienti, e di sessantenni ai quali non rinuncerei per nessun motivo.
Il grillismo è una malattia irreversibile?
C’è sempre stato. Ieri era il Fronte dell’Uomo qualunque, oggi è il Movimento 5 stelle. Beppe Grillo non è altro che il Gabriele D’Annunzio, il Guglielmo Giannini, l’indiano metropolitano del Terzo millennio. Parla alla pancia degli elettori. Poi dentro il grillismo trovi anche dei ragazzi in gamba.
Ho seguito in tv la conferenza stampa del ventenne Mattia Calise, candidato sindaco dei grillini a Milano. Una pena.
Sì, eh.
Un disco rotto, un pappagallo ammaestrato.
Ah, ecco.
Non sono ancora riuscito a capire come abbia fatto l’ex responsabile della comunicazione di Palazzo Chigi a curare l’immagine della prima edizione del «Grande fratello». Sarebbe come se il direttore del «Corriere della sera» andasse a dirigere «Novella 2000».
Be’, mi pare evidente: mi occupo solo di numeri uno. Quando Mauro Crippa mi telefonò dalla Mediaset per propormelo, non sapevo che cosa fosse il Grande fratello. I dvd dell’edizione olandese del reality mi tennero incollato al video per tutta la notte.
Avrebbe voluto esserci lei nella casa, confessi.
È quello che disse Giorgio Gori, direttore di Canale 5: «Pensa che bello se fossimo lì dentro. Quanto tempo per chiacchierare!».
Il commento di D’Alema quale fu?
D’Alema non commenta mai le scelte degli amici, né in bene né in male. Solo dal tono di voce capisci ciò che pensa: non apprezzò.
Certo che lei e Velardi pubblicate giudizi orribili sul vostro ex datore di lavoro. «The front page» ha imputato a D’Alema «il fanatismo del tono, l’approssimazione nell’analisi, il catastrofismo degli esiti, la balbuzie strategica, l’afasia tattica». L’avete paragonato a Dario Franceschini, che mi pare l’offesa peggiore.
Il nostro blog è una piccola oasi libertaria. Ospitiamo anche due ultraleghisti che si firmano Liutprando e Il Padano. Ma la mia opinione è un’altra.
Maria Laura Rodotà vi bollò come «i Lothar di D’Alema».
Geniale. Ci ha resi famosi. Lui Mandrake e noi i servi scemi. Andrebbero aggiunti Marco Minniti e Nicola Latorre. A dire il vero D’Alema ci chiamava la bocciofila.
La bocciofila? Secondo Marco Travaglio voi D’Alema boys siete quelli che «sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo e ne sono usciti ricchi».
Guadagnavo 70 milioni di lire l’anno, lordi. Non mi pare un gran stipendio, rispetto ai 120-130 mila euro di oggi. Nessuno di noi s’è arricchito. Sono l’unico ex portavoce governativo che non è stato parcheggiato alla Rai. Anche perché mi avrebbe ripugnato lavorare al Tg1 in quota D’Alema.
Sempre secondo Travaglio, la sua competenza professionale è questa: «Rondolino
non sa nemmeno che giorno è».
(Ride). Ha ragione. Lo prendo come un complimento. Ho perso il furore da militante, da sacerdote, da profeta che Travaglio ha e che un tempo avevo anch’io. Una parte di me s’è distaccata. Che giorno è oggi?
D’Alema la cacciò da Palazzo Chigi in seguito all’anticipazione di un capitolo hard del suo libro «Secondo avviso».
Dieci pagine in tutto, che raccontavano un sogno erotico. Nessuno mi cacciò. Uscì un’anticipazione su Panorama. Capii che la polemica stava danneggiando il premier. In fin dei conti ero l’uomo incaricato di fargli fare bella figura. L’indomani presentai le dimissioni e D’Alema prese atto.
La famosa anticipazione in cui la sua seconda moglie confessava a Giancarlo Perna: «Ogni volta che esce una nuova rivista porno in edicola io e Fabrizio la compriamo e la leggiamo insieme».
Scherzava. Non sapeva che la telefonata di Perna si sarebbe tradotta in un’intervista.
Lei stesso ha confessato che la sua educazione sessuale fu «Messalina», fumetto per caserme: «Ambientazione impero romano, pepli, tuniche e qualche tetta».
Avrò avuto 12 anni. Sicuramente non fui io a comprarlo. Me l’avrà passato un amico.
Ha sempre avuto la fissa per il sesso?
(Lungo silenzio). Onestamente no. Mi piace e basta. E sono molto tollerante con i comportamenti altrui.
Simona Ercolani dice che quando nel 1991 vi conosceste al congresso di Rimini del Pci, da cui nacquero il vostro amore e il Pds, il suo futuro marito «aveva pochi capelli ed era grasso e brutto», però la fece capitolare dopo tre mesi di serrato corteggiamento. E baciandolo scoprì che aveva «labbra bellissime».
Ah, perbacco. Ricordo benissimo. Accadde durante la finale del Festival di Sanremo. Infatti l’anniversario di matrimonio per noi è una festa mobile: lo celebriamo la sera in cui si conclude il Festival.
Perché ha definito la letteratura «un Parnaso di stronzi»?
E chi lo sa? Nella mia vita ho detto tante cose che non avrei voluto dire. Ogni tanto esagero in vis polemica.
Da «Secondo avviso»: «Lo spettacolo del membro di Giovanni arrossato piantato in mezzo alle chiappe di Beatrice è straordinario. Ezio non resiste e spruzza in faccia alla troia». È questo che aveva in mente quando parlava di letteratura?
(Ride). Ma no, ma no. Boh, vabbè, lasciamo stare... Oltre che non esistere l’Italia, non esiste neppure la letteratura italiana. Non lo vede quant’è esangue e ombelicale? Quasi tutti i recensori sono autori o giurati di premi. Una mafietta. Io recensisco te, tu segnali me. E intanto la qualità deperisce. La letteratura americana è la più bella del mondo perché risponde al mercato, non alle consorterie. Se il critico del New Yorker pubblica un romanzo, smette di fare il critico del New Yorker. Noi invece siamo il paese del conflitto d’interessi perenne, della famiglia latina, dei clientes. Ecco, adesso diranno che sono invidioso perché non ho vinto il premio Strega.
Stefano Lorenzetto
LORENZETTO Stefano. 54 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama, First e Monsieur. Dieci libri: Cuor di veneto e Il Vittorioso i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.