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 2011  giugno 09 Giovedì calendario

CENT’ANNI DI ARBITRI

Comincia la festa. Anzi, era cominciata cent’anni fa, nel senso che in molti agli arbitri hanno sempre cercato di farla, la festa. Contestazioni, minacce, inseguimenti e peggio... Ma questa è una festa vera, l’Aia compie un secolo, ieri al Salone d’Onore del Coni hanno dato il via alle celebrazioni e il presidente Marcello Nicchi ha aperto il suo discorso con uno slogan: «Abbiamo fatto la storia».

Una storia nata il 27 agosto 1911 a Milano in un ristorante che, guarda caso, si chiamava «L’orologio». Primo presidente Umberto Meazza, nome che sarebbe diventato famoso più avanti con il grande Peppino campione del mondo nel 1934 e nel 1938. Ma nessuna parentela con l’Umberto, nominato anche, in quel 1911, presidente della prima commissione tecnica per varare una Nazionale.

Molti anni prima che l’Aia nascesse esistevano già regole precise dettate dagli inglesi, gli inventori del football, ed è curioso scoprire come ora il passato stia tornando. Per ogni incontro erano previsti due arbitri, due guardalinee, due giudici di porta. Soltanto dal 1896 si passò al direttore di gara unico. E poi le regole: il portiere si può caricare soltanto quando ostacola un avversario o ha il pallone. E il fuorigioco, e tante altre disposizioni in mutazione continua. Erano vestiti, cent’anni fa, in modo accurato: papillon, calzoni e giacca. Più avanti la cravatta, ai primi Mondiali (1930) era richiesto il basco.

Contestazioni? Da sempre naturalmente, senza raggiungere l’esasperazione attuale che attraverso la perfida moviola non perdona nulla. Ma, per dirne una, pur senza moviola il direttore di gara belga Langenus che fischiò la finale dei Mondiali 1930 (Uruguay-Argentina) scese in campo solo dopo aver ottenuto un’assicurazione sulla vita e la garanzia di potersi imbarcare quella sera stessa sul piroscafo in partenza per l’Europa. Per restare in Italia, nel 1929 uscì un editoriale di fuoco sulla rivista «L’arbitro» dal titolo emblematico: Basta. Non ne potevano più di ingiurie, atti villani, percosse. «Il nostro non è un mestiere, solo pura passione», si scrivera in quell’articolo. Con il tempo la passione cominciò a essere sostenuta da rimborsi spese, fino a quando venne sacito, nel 1996, il professionismo, con stipendi che arrivavano a 250 milioni di lire per i big della A. E l’euro ha fatto da moltiplicatore. Ma poiché oggi fischiare è davvero una professione, le tensioni aumentano, la selezione è crudele, gli errori gravi possono costare una carriera. In passato succedeva soltanto per questioni deontologiche. Un esempio: nel 1949 venne radiato il toscano Pera, che aveva diretto con vergognosa parzialità a favore della Roma una partita a Novara.

Tentativi di corruzione o perlomeno di ammorbidirne la volontà? Tanti. Ricordiamo i Rolex regalati da Sensi, che poi gli arbitri dovettero restituire. O una denuncia di Helenio Herrera a proposito di scatoloni con regalo: in uno, si disse, c’era una pelliccia per la moglie dell’arbitro. In realtà tutti gli scatoloni contenevano pellicce. L’altra faccia, quella di tutti i giorni, racconta di una carriera che comincia dai campi di periferia senza protezione, delle accuse quasi sempre infondate di sudditanza psicologica. Fu Concetto Lo Bello il primo a fare autocritica in tivù, anno 1972, quando alla Domenica Sportiva ammise che avrebbe dovuto fischiare un rigore per il Milan contro la Juve (era finita 1-1). Anche il razzismo e tanti germi moderni oggi complicano la vita degli arbitri. Da dieci anni l’Aia ha aperto alle donne, una ventata di freschezza. E poi sarà più difficile, per i tifosi, gridare la frase di sempre, «arbitro cornuto».