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 2011  giugno 09 Giovedì calendario

IL DIALOGO DIFFICILE TRA MUSULMANI E COPTI PER SALVARE LA RIVOLUZIONE (E LE MINIGONNE)

Il 1 gennaio, 24 giorni prima dell’inizio della rivoluzione egiziana, un terrorista suicida si è fatto saltare in aria di fronte alla chiesa dei Santi, in Alessandria, dove si celebrava con il rito copto l’arrivo dell’anno nuovo. L’esplosione ha provocato 21 morti e 70 feriti. Nei giorni seguenti i copti del Cairo hanno dimostrato di fronte alla cattedrale di San Marco, sede del loro capo spirituale, e inscenato una manifestazione contro i rappresentanti del governo che erano venuti a presentare le loro condoglianze a papa Shenuda III. Vi sono stati violenti scontri con la polizia, il presidente Mubarak è apparso alla televisione per denunciare la presenza di «mani straniere» nell’attentato di Alessandria ed esortare alla concordia le due maggiori confessioni religiose del Paese. Poco più di tre settimane dopo, parecchie migliaia di giovani copti e musulmani hanno accolto l’invito, ma lo hanno ritorto contro Mubarak per chiedere insieme la fine del suo regime. Abbiamo assistito da allora, in piazza Tahrir, ad alcune promettenti manifestazioni di riconciliazione religiosa. È apparso un nuovo simbolo: una croce iscritta all’interno di una mezzaluna. Sono stati creati piccoli spazi in cui i fedeli delle due religioni potevano fare le loro devozioni. Abbiamo intravisto un Egitto in cui la minoranza copta (il 10%della popolazione secondo stime ufficiali, fra il 15 e il 20%per coloro che accusano il governo di sottostimarne l’importanza) avrebbe gli stessi diritti civili della maggioranza musulmana, fra cui quello di costruire liberamente le proprie chiese. Ma dal momento in cui la piazza si è svuotata, il clima è andato progressivamente peggiorando. Il 7 maggio alcuni scontri fra copti e musulmani nel quartiere cairota di Imbaba hanno provocato una dozzina di morti, quasi duecento feriti e due chiese in fiamme. L’ 8 maggio i copti hanno formato «gruppi di autodifesa» e organizzato un sit-in di fronte al ministero degli Interni. Il 14 maggio, dopo qualche sparo d’incerta provenienza, copti e musulmani si sono dati nuovamente battaglia e hanno lasciato sul selciato 55 feriti. All’origine di questi scontri vi sono spesso le solite infamie di cui due gruppi religiosi si accusano a vicenda quando vogliono venire alle mani: un bambino rapito, una donna cristiana convertita e trattenuta a forza in una chiesa. Potremmo liquidarli come pretesti di fazioni fanatiche se la caduta del regime di Mubarak non avesse scoperchiato la pentola in cui bollivano vecchi rancori e pregiudizi. I copti si considerano discendenti dei cristiani evangelizzati dall’apostolo Marco durante i suoi soggiorni ad Alessandria, quindi molto più egiziani dei loro connazionali musulmani. E questi trattano i copti, per molti aspetti, nel modo in cui i cristiani trattavano gli ebrei nelle province polacche dell’impero russo: una combinazione di odio religioso e di invidia per i loro innegabili successi economici. Con un prudente dosaggio di colpi al cerchio e colpi alla botte, il «sistema Mubarak» era riuscito ad accontentare i musulmani senza troppo scontentare i copti. Oggi, in attesa di nuove regole, l’integralismo musulmano riparte all’attacco e l’orgoglio copto si batte in difesa. Le autorità— i militari e il vertice della Chiesa copta — hanno fatto del loro meglio per calmare gli animi. Alla vigilia di Pasqua un generale, in rappresentanza del Consiglio supremo militare, ha visitato solennemente la cattedrale di Santa Maria nel quartiere di Giza e ha stretto calorosamente la mano dei preti e dei notabili copti che lo attendevano di fronte alla Chiesa. Due settimane dopo, mentre copti e musulmani si combattevano di fronte al ministero degli Interni, papa Shenuda ha esortato i suoi fedeli a disperdersi e a tornare a casa. Fra coloro che si sono maggiormente prodigati per la pacificazione degli animi, in questi ultimi tempi, vi è Ahmed El Tayeb, Grande Imam dell’Università di Al Azhar. Lo avevo conosciuto qualche anno fa, quando era rettore dell’Università e vestiva un abito scuro di taglio occidentale. Ora veste un lunga tunica nera e ha il capo coperto da un berretto bianco non diverso da quello di un qualsiasi imam sunnita nell’esercizio delle sue funzioni. Ma è la principale autorità religiosa della più autorevole istituzione accademica dell’Islam, una carica che conferisce alle sue posizioni un prestigio pari a quello del grande Ayatollah iraniano nel mondo sciita. Anche El Tayeb, nei giorni di piazza Tahrir, è stato bersaglio di qualche contestazione dai giovani che gli rimproveravano, tra l’altro, di essere stato nominato, come i suoi predecessori, dal presidente Mubarak. Ma non sembra che quei colpi di spillo abbiano deturpato la sua immagine. È certamente conservatore, ma troppo intelligente per ignorare che negli scontri fra religioni il numero degli sconfitti è sempre superiore a quello dei vincitori. La sua risposta al clima sovraeccitato degli scorsi mesi è una iniziativa ecumenica. Mi dice di avere costituito con papa Shenuda e altri esponenti religiosi una «Casa della famiglia» , in cui si lavora a creare le condizioni per una migliore convivenza fra musulmani e cristiani. Sono state istituite commissioni per eliminare dai manuali e dai programmi scolastici tutto ciò che può incitare all’odio interreligioso. Vengono programmate trasmissioni televisive in cui i rappresentanti delle diverse fedi religiose confrontano le loro letture dei testi sacri. Gli chiedo se la sua politica si scontri con la resistenza dell’oltranzismo islamico, della Fratellanza musulmana, dei gruppi salafiti che sono usciti dall’ombra e si stanno organizzando. Mi risponde prudentemente ed ecumenicamente che con la Fratellanza è possibile dialogare e che anche tra i salafiti vi sono i buoni e i cattivi. Ma ho l’impressione che il suo maggiore problema non sia soltanto quello di tenere a bada gli estremismi religiosi in un Paese surriscaldato. La «rivoluzione » di piazza Tahrir è stata opera di giovani rispettosi della loro fede, ma molto più laici dei loro genitori. Ricordo al Grande Imam alcuni dati statistici sulle ultime generazioni arabe rilevati recentemente da uno studioso francese, Emmanuel Todd. Secondo Todd le ultime ricerche registrano il declino di una vecchia pratica endogamica, tipica delle società conservatrici: il matrimonio fra cugini. Il dato segnala che la famiglia sta perdendo la capacità di condizionare con le scelte matrimoniali il futuro dei figli. Ahmed El Tayeb non commenta i dati ma osserva che il suo matrimonio fu organizzato dalla famiglia e che la sua vita matrimoniale è stata felice. Riconosce che i suoi figli hanno scelto liberamente le loro mogli, ma aggiunge che i loro matrimoni sono stati un po’ più complicati del suo. Qualche ora dopo, in albergo, sto ripensando alle parole del Grande Imam quando qualcuno mi suggerisce di dare un’occhiata alla sala da ballo dove si sta festeggiando un matrimonio. La musica assordante e l’illuminazione lampeggiante sono quelle di una discoteca. Al centro della sala un centinaio di giovani coppie hanno formato un cerchio e ballano freneticamente intorno agli sposi. Una telecamera montata su una grande gru ritrae la scena dall’alto e la proietta su un grande schermo. I ragazzi hanno eleganti abiti scuri, camicie bianche, occhi di velluto, capelli impeccabilmente spettinati. Le ragazze hanno gonne molto corte, vestitini attillati, braccia nude, generose scollature e capelli al vento. Ai tavolini disseminati lungo la sala sono seduti signori e signore che, a giudicare dall’età, sono i padri e le madri dei ballerini. Quasi tutte le madri hanno la testa avvolta in un foulard che scopre soltanto l’ovale del viso. Ma una di esse ogni tanto si alza e accenna un passo di danza. A nessuna di esse passava per la mente di dire a sua figlia che avrebbe dovuto vestirsi diversamente. Forse è questa la vera rivoluzione egiziana.
Sergio Romano