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 2011  giugno 09 Giovedì calendario

3 articoli – IL PRESIDIO DEL PUBBLICO - L ’ acqua di Milano? Oggi potrebbe gestirla chiunque, ma il merito non è (solo) della gestione pubblica

3 articoli – IL PRESIDIO DEL PUBBLICO - L ’ acqua di Milano? Oggi potrebbe gestirla chiunque, ma il merito non è (solo) della gestione pubblica. Nel territorio le riserve sono abbondanti, l’utenza da raggiungere è compatta e bastano tre depuratori per completare il ciclo approvvigionamento-scarichi. Tutto il contrario di quello che succede in Sardegna, dove un numero di abitanti di poco superiore a quelli del capoluogo lombardo è disperso su una superficie almeno 120 volte più grande. Il quesito numero uno del referendum del 12 e 13 giugno (scheda rossa) pone un problema generale: entro il 2011 la proprietà delle società pubbliche che assicurano la gestione del servizio idrico dovranno essere aperte ai privati. Ai nuovi attori del mercato saranno riservate quote non inferiori al 40%del capitale. Ma la realtà del Paese sfugge a questo schema giuridico. Le società pubbliche non sono tutte uguali, qualunque sia il parametro utilizzato per giudicarle: tariffe, investimenti, qualità del servizio. Basta un rapido giro tra gli esperti più qualificati per compilare una specie di classifica. Ai primi posti Irisacqua di Gorizia, Smat di Torino, Metropolitane milanesi In coda Abbanoa in Sardegna. In questo caso va superata la tentazione di appoggiarsi alla solita stampella interpretativa: Nord efficiente, Sud arretrato e sprecone. Non sempre è così. L’Acquedotto pugliese, per esempio, considerato per decenni il trogolo di una classe dirigente politico-burocratica famelica e inetta, manda segnali di interessante ripresa. E qualcosa comincia a muoversi anche nella disastrata Abbanoa sarda. Ma c’è un’altra avvertenza da tenere ben in vista. I confini tra pubblico e privato, già oggi, non sono così netti. Prendiamo proprio il caso milanese, «l’acqua meno cara e più buona del Paese» , come ha più volte dichiarato (forse esagerando) Lanfranco Senn, presidente delle Metropolitane milanesi, la società per azioni controllata dal Comune che dal 2003 gestisce anche il servizio idrico. Può sembrare strano, ma ancora oggi gran parte del merito va a Felice Poggi, un giovane e anonimo ingegnere dell’Ufficio tecnico comunale, che alla fine dell’Ottocento indicò la falda freatica come la fonte ideale per dissetare la città. Sulle idee di Poggi sono campate, beneficiando di una specie di rendita progettuale, tutte le amministrazioni comunali, comprese le ultime del centrodestra. Certo, nel frattempo, la filiera tecnologica è cresciuta: i controlli realizzati in scala consentono di contenere, per esempio, il «tasso di dispersione» intorno all’ 11%contro la media nazionale del 47%, calcolata dal Censis (è l’acqua non fatturata o perché i tubi perdono o perché gli utenti non pagano le bollette). Ma l’approvvigionamento ormai copre solo il 50%del ciclo. Poi vengono gli altri passaggi fondamentali per assicurare la potabilità, la distribuzione, il collettamento nelle fognature, la depurazione e infine lo scarico nei fiumi, nei laghi e nel mare. Tutto questo lavoro è a carico del pubblico? Non sempre. Basta scorrere il diagramma delle Metropolitane milanesi per verificare come, alla voce «depurazione» , compaia la Degrémont, società del gruppo multinazionale francese Gdf-Suez, che gestisce in appalto il depuratore di Milano San Rocco. In definitiva ciò che appare decisiva è la capacità di gestione. Una lama che attraversa in modo trasversale il campo del pubblico, quanto quello del privato. Per decenni l’Acquedotto pugliese è stato considerato l’esempio classico dell’inefficienza. Un’opera da grandi numeri (21 mila chilometri di tubature per l’acqua pulita, 10 mila di scarichi, 5 milioni di utenti) e, fino a poco tempo fa, di prestazioni clamorosamente scadenti. Il punto critico è lo spreco di acqua: ancora oggi su 100 litri pescati nel fiume Sele in Irpinia solo 47 ricompaiono sui libri contabili. Il 10%si perde per strada lungo le grandi dorsali di collegamento; un altro 25%scompare per i guasti nelle reti dei centri abitati e, infine, un ulteriore 11%semplicemente viene rubato (per esempio dai pastori sul Gargano) o non pagato dagli utenti. La supervisione della giunta guidata da Nichi Vendola si può dividere in due fasi. Nel luglio del 2005 il governatore chiama alla presidenza Riccardo Petrella, l’ideologo (se così si può dire) del concetto «acqua pubblica» . Ma il nuovo corso si incaglia quasi subito sull’assetto giuridico dell’Acquedotto. Secondo Petrella bisognava abbandonare la forma della società per azioni, che sottintende comunque uno scopo di lucro, e tornare all’ente pubblico. Per Vendola, invece, quella non era la priorità del momento. Sta di fatto che nel 2007 Petrella si dimette e arriva Ivo Monteforte, manager ligure proveniente dalla società multiservizi di Pesaro. Monteforte vara un piano pragmatico, arrivando a recuperare 40 milioni di metri cubi di acqua dispersa. E, soprattutto, riportando i bilanci nella area della decenza economica. Fatturato di circa 400 milioni e utili in risalita. Erano solo 400 mila euro nel 2008, sono arrivati a 12 milioni nel 2009 e lo stesso Monteforte ora annuncia: «Il bilancio 2010 chiude con 37 milioni di euro» . L’azienda resta, comunque, al centro delle polemiche e anche di qualche paradosso. La giunta Vendola sta tornando verso la trasformazione della spa in Ente pubblico non economico. Un’operazione che costerà circa 12 milioni di euro, poiché la Regione Puglia, cui fa capo l’ 87,1%del capitale, dovrà comprare dalla Regione Basilicata il restante 12,9%. Vale la pena? C’è chi, come il senatore del Pdl Luigi D’Ambrosio, sostiene che questa spesa si aggiungerebbe alla lista degli sprechi. Tuttavia è interessante notare come persino l’Acquedotto pugliese, cioè il pubblico più pubblico che ci sia, ora guardi con attenzione ai conti e alla redditività. Giuseppe Sarcina I PRIMI PASSI DEI PRIVATI - Il numero da tenere a mente è 7%. E’ il guadagno medio sugli investimenti (i tecnici lo chiamano «Roi» , «Return on Investment» ) realizzato dai gestori di reti pubbliche o private in Europa. Acqua compresa. In Italia, l’analisi a campione realizzata nel 2008 (ultimo anno disponibile) dalla Conviri (la Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche) segnala che «alcuni gestori presentano «Roi» abbastanza superiori al 7%; al contrario altri registrano valori inferiori» . Che cosa significa? Semplice: già oggi le società traggono un profitto dalla gestione dell’acqua, anche se qualcuno sta sopra e qualcuno sotto il parametro di riferimento adottato dalla legge Galli del ’ 94 che ha riordinato la rete idrica nazionale, un tempo frammentata tra le competenze di 8.500 comuni. Il Paese è stato diviso in 92 Ato (Ambiti territoriali ottimali) cui spetta l’assegnazione del servizio. Lo hanno fatto 72 Ato: 34 si sono affidati a società totalmente in mano agli enti locali; 13 a multiutility quotate in Borsa, ma con una forte presenza pubblica; 12 ad aziende miste pubblico-privato. Infine solo 6 Ambiti territoriali hanno puntato solo sui privati, mantenendo però la proprietà nelle mani pubbliche (tutti i dati sono ricavati dal «Blue Book 2010» di Utilitatis). Dunque gli interessi privati («le mani forti» ) non sono ancora i padroni del mercato. Lo diventeranno? C’è chi pensa di sì, notando che nei prossimi 30 anni saranno necessari 64,1 miliardi di investimenti per risistemare il sistema idrico italiano. Da dove arriveranno questi capitali, considerando i vincoli della finanza pubblica? Se ragioniamo sul presente un indirizzo cui rivolgersi è quello dell’Acea, il primo operatore nell’acqua in Italia (8 milioni di utenti), una società mista controllata al 51%dal Comune di Roma, ma con due soci privati di peso. Il gruppo Caltagirone (15%) e i francesi di Gdf (10%). L’Acea ha stanziato circa 1,3 miliardi di euro da investire nella ristrutturazione della rete idrica ed elettrica. E l’amministratore Marco Staderini, in una recente intervista al CorrierEconomia, ha dichiarato che «in ballo ci sono 4 miliardi di opere immediatamente cantierabili con la creazione di centomila posti di lavoro» . Ora bisognerebbe capire come i referendum possano interferire sui piani delle aziende. «I referendum hanno già ottenuto un risultato, quello di compattare le grandi aziende pubbliche del Nord, generalmente efficienti, con le imprese private che vorrebbero investire di più» , osserva Antonio Massarutto, professore di Economia pubblica all’Università di Udine e uno dei maggiori esperti di acqua (ultimo libro: «Privati dell’acqua?» , Il Mulino 2011). A parte Francesco Gaetano Caltagirone oggi «capitali privati» significa sostanzialmente Francia: Gdf-Suez e Veolia. Due public company con azionariato diffuso e presidiate direttamente dallo Stato transalpino che detiene il 36%in Gdf-Suez e il 10%in Veolia. Per il momento si sono mosse soprattutto nel centro-sud. Gdf-Suez (attraverso Ondeo Italia spa ed Electrabel Italia spa), oltre alla partecipazione in Acea, ha piantato 4 bandierine in Toscana, rilevando il 100%di Acque Toscane spa, che opera in alcuni comuni di Pistoia e Firenze; il 46%in Nuove Acque Spa (Arezzo); il 9%in Publiacqua spa (Firenze); l’ 8%in Acquedotto del Fiora spa (Grosseto e Siena) e, infine, il 5,4%in Acque Spa (Pisa). Veolia ha messo un piede a Genova (17%di Mediterranea delle Acque spa); a Lucca (19%Gea); nella provincia di Napoli e Caserta (24%di Acqua Campania spa) e in Calabria (46,5%di Sorical). Inoltre si è presa in carico la Sicilia (75%di Siciliacque spa). Ma la partecipazione che è diventata un simbolo, quasi il nemico numero uno, per il movimento referendario è il 47%di Acqualatina spa. Quasi dieci anni di polemiche e di accuse, di comitati e di appelli, con gli interventi, tra gli altri, di Beppe Grillo e padre Alex Zanotelli. Il punto di rottura è quello delle tariffe. Anzi si può dire che sia cominciata proprio da Latina la formazione di un movimento per «la ripubblicizzazione» dell’acqua sulla base di un’equazione: capitali privati uguale tariffe più alte. Ad Aprilia si è formato il «Comitato per l’acqua pubblica comunale» che dal 2005 si autoriduce la bolletta, poiché in quell’anno, sostiene, l’azienda ha aumentato le tariffe dal 50 fino al 300%. La polemica ha ripreso tono in questi giorni di vigilia del referendum. La società riconosce che «vi sia stato in alcuni casi un incremento delle tariffe nel passaggio di gestione» , ma in altre situazioni «il costo per gli utenti si è ridotto. Per esempio nel Comune di Latina» . Nel rimpallo delle cifre vale la pena isolare un punto di interesse generale. Gli esponenti del «Comitato per l’Acqua pubblica» di Aprilia ammettono di non pagare più della media nazionale. Lamentano, invece, di «pagare molto più di prima» . E quanto si versava prima? «Evidentemente poco o nulla» risponde Massarutto. E questo è un tema obbligato per tutti i gestori, pubblici e privati che siano: mettere in equilibrio ricavi e spese è indispensabile per modernizzare le reti. Certo, colpisce che a Latina la conferenza dei sindaci (cui fa capo il 51%di Acqualatina spa) non abbia pilotato una transizione più graduale tra il mondo del «rubinetto gratis» e le tariffe imposte dalla logica di bilancio (prima ancora che di mercato). «In realtà questo compito toccherebbe a una Authority davvero indipendente, sul modello di quella esistente per il gas e l’energia» , sostiene Andrea Gilardoni, professore di Economia e gestione delle public utilities all’Università Bocconi di Milano e da un anno impegnato, come consulente, nel risanamento della sarda Abbanoa. Il decreto sullo sviluppo, presentato dal governo, prevede, invece, la costituzione di un’Agenzia i cui i vertici, compreso il direttore generale, verrebbero nominati dall’esecutivo. Acque diverse, verrebbe da dire. G. Sar. IL MONDO DIVISO - R egola numero uno, quando si tratta di acqua: non fare come a Cochabamba. Lì, il governo boliviano, ansioso di realizzare qualcosa di faraonico, negli anni Novanta sviluppò un progetto che la Banca mondiale aveva bocciato perché costoso e inutile e per farlo coinvolse un consorzio guidato dal colosso americano Bechtel: si trattava di costruire una diga e un lungo tunnel per raggiungere nuove fonti. Il risultato fu che i privati, per rientrare dall’investimento effettuato, chiesero di raddoppiare di fatto la bolletta dei poveri cittadini. Si sviluppò un enorme movimento di opposizione, le autorità fecero marcia indietro e la rivolta di Cochabamba divenne il simbolo mondiale della lotta contro la privatizzazione dell’acqua. In realtà, la privatizzazione non c’entrava: a fare esplodere i costi era stato il progetto insensato, realizzato inoltre in una situazione di infrastrutture lasciate andare a pezzi in anni di acqua fatta pagare troppo poco. Regola numero due: non fare come a Berlino. Nel 1999, la capitale tedesca, sempre con il bilancio in rosso, vendette il 49,9%della Berliner Wasserbetriebe alla francese Veolia e alla tedesca Rwe. Il contratto di gestione che fu concesso alle imprese, però, non fu per nulla trasparente, anzi alcuni dei termini più delicati — la redditività, ad esempio— vennero tenuti nascosti alla cittadinanza. Fatto sta che da allora il prezzo dell’acqua berlinese è aumentato del 35%e adesso è il più alto della Germania. Lo scorso febbraio, dunque, un referendum che ha raccolto il consenso di oltre il 98%dei votanti ha chiesto che i termini del contratto vengano resi pubblici: primo passo verso il riacquisto della quota privatizzata da parte del governo cittadino guidato dal sindaco socialdemocratico Klaus Wowereit. È che l’incontro tra l’acqua — considerata da molti in tutto il mondo un dono del cielo— e gli interessi privati suscita passioni quasi ancestrali. Paesi che oggi hanno distribuzioni locali e municipali in gran parte pubbliche, ad esempio gli Stati Uniti, per oltre un secolo hanno affidato l’acqua a società private, in alcuni casi con guerre epiche. Allo stesso modo, in Francia l’acqua privata ha consentito la creazione di alcuni dei maggiori gruppi imprenditoriali del Paese— Générale des Eaux e Lyonnaise des Eaux. La realtà è che la gestione e la distribuzione dell’acqua è un settore complesso, frazionato e che deve tenere conto di molti fattori: le tariffe, ma anche la qualità dell’acqua, la manutenzione e il miglioramento delle infrastrutture, l’approvvigionamento, la continuità della fornitura. Non è dunque facile giudicare in termini obiettivi quanto una privatizzazione faccia bene o meno. Il caso di maggiore successo è quello della Gran Bretagna, dove nel 1989 Margaret Thatcher procedette alla vendita delle dieci compagnie pubbliche che gestivano l’acqua in Inghilterra e Galles. Nei primi anni le tariffe salirono di oltre il 40%, a causa di un controllo poco stringente. Poi, però, l’authority Ofwat ha imposto regole più severe e le cose sono migliorate. Anche gli investimenti nelle infrastrutture sono notevolmente aumentati e la qualità dei corsi d’acqua è migliorata. Oggi, nel Regno Unito praticamente nessuno mette in seria discussione quella privatizzazione. Il fatto è che, proprio per la sua delicatezza, se un business dell’acqua ci deve essere, va trattato con molta attenzione. Prima di tutto, si tratta di decidere quale forma di privatizzazione si sceglie. Quella totale, britannica (ma anche cilena), nella quale si vendono gli asset e poi si dà un forte potere a un’autorità di controllo. Oppure la concessione, cioè il trasferimento dell’intera gestione delle operazioni legate all’acqua ma solo per un periodo limitato e con il patrimonio (fonti, acquedotti e canali di distribuzione) che rimane pubblico. Oppure ancora l’affitto, nel quale il privato non possiede e non finanzia nulla ma si limita a gestire e a trarre un profitto da questa attività. O, infine, il contratto di management, nel quale l’impresa privata gestisce le operazioni ed è pagata una percentuale del giro d’affari (in Germania tipicamente il 7,2%), spesso tenendo conto di efficienza e risultati. Poi, occorre il controllo. Perché, in ognuno dei casi citati, rimane centrale il ruolo dello Stato e dei Comuni. Se il sistema di governo è poco trasparente, probabilmente l’acqua in mani pubbliche favorirà la corruzione e il decadimento delle infrastrutture, l’acqua in mani private favorirà la speculazione e ancora la corruzione. Il contrario è vero nei Paesi in cui la governance è chiara nelle regole, trasparente e controllabile. Resta il fatto che i gruppi privati possono portare al settore benefici tecnologici. E soprattutto introducono un concetto importante: l’acqua scende sì dal cielo, ma il suo uso razionale è faccenda terrena, e il modo migliore per darle valore è metterci un prezzo. Un prezzo giusto, però. Danilo Taino