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 2011  giugno 07 Martedì calendario

I LAGER PER MASTINI L´ULTIMA VIOLENZA CINESE

Decine di fortezze, poco sotto quota quattromila, sono allineate lungo la strada che dall´aeroporto conduce al Potala, cuore del Tibet e del potere buddista. Mura invalicabili rompono gli ingressi delle caserme che anticipano Lhasa, con cui l´esercito cinese previene e reprime le proteste anti-Pechino dei popoli nati sull´Himalaya. Le guide non dicono ai viaggiatori chi difendano questi minacciosi fortini. Costeggiando le sorgenti del Brahmaputra si limitano a spiegare che qui i tibetani fanno a pezzi i propri defunti, affidandoli ai pesci. Dietro ai cancelli sbarrati si nasconde però l´ultima violenza dei cinesi "han" contro la gente e la natura delle montagne più alte e selvagge della Terra: la prigionia dei mastini tibetani, rinchiusi dentro gabbie appena più grandi del cane più antico, massiccio e prezioso del pianeta. Per millenni il "Do-Khyi", guardiano delle mandrie di yak dei nomadi pastori, ha corso libero sugli altipiani tra Tibet, Nepal e Bhutan, dirigendo le traversate delle carovane. È un cane gigantesco, evoluto per difendere persone, tende e animali dagli attacchi di orsi e leopardi di montagna. Marco Polo, settecento anni fa, lo descrisse come più alto di un asino. Vive solo sull´Himalaya e l´isolamento ha conservato intatta la razza: supera il metro di altezza e, da adulto, i 130 chili. Fino a pochi anni fa nessuno, tranne i pastori dei villaggi lontani, si curava dei molossi dell´Asia. I lama tibetani credono che siano la reincarnazione di monache e monaci che non sono riusciti a rinascere come persone e ne vietano il commercio. Fino a quando il Dalai Lama ha regnato su Lhasa, nel 1959, i mastini tibetani erano ammessi al Potala, nei monasteri distrutti e svuotati dalla Rivoluzione Culturale di Mao Zedong. Sui pascoli alti i cuccioli venivano scambiati con il sale, o regalati per vegliare su donne e bambini durante l´assenza degli uomini, impegnati a caserare al limite dei ghiacciai. Questo mondo sospeso tra mistero e originarietà, a cui in ogni istante i tibetani pensano con un misto di fierezza, di nostalgia e di speranza, è oggi rinchiuso dietro le sbarre di allevamenti inaccettabili, dove migliaia di animali agonizzano dentro gabbie anguste, spesso invase da escrementi e mangime avariato. Gli allevamenti-lager dei mastini tibetani ufficialmente non esistono e chi sale a Lhasa si sente dire che i cani dei pastori sono visibili solo dopo giorni di viaggio, raggiungendo fiumi e monti sacri agli dei.
Le bestie invece sono qui, dietro i muri coperti dai manifesti che ritraggono i capi più spettacolari, pronti per essere caricati nelle stive degli aerei. Per entrare in un allevamento è necessario fingersi clienti, essere introdotti da un´agenzia, insistere per ottenere un permesso e pagare una cauzione. Il cane sacro che i tibetani non possono vendere è oggi una merce esclusiva dei commercianti cinesi, che hanno invaso il Tibet assieme ai soldati e ai funzionari di Pechino. In pochi anni, dopo che il divieto maoista di possedere animali da compagnia è stato soppresso, è diventato lo status symbol dei nuovi ricchi. I giovani miliardari della seconda potenza economica del pianeta atterrano nella valle dello Tsangpo e i carceri dei mastini si aprono ai nuovi capitali comunisti. Scegliere un cane significa penetrare tra decine di gabbie, sorvegliate da miliziani armati. I cani sono stesi sul cemento, sotto l´effetto dei sedativi, ma appena qualcuno s´accosta si scagliano contro le sbarre con spaventosa violenza. Qualcuno ha gli occhi chiusi da carne insanguinata, altri perdono brandelli di cute e di pelliccia, quasi tutti stentano a reggersi in piedi. Avvicinarsi alle gabbie, superando la tristezza, è vietato e gran parte degli allevamenti è chiusa agli estranei. I muri di cinta, più alti di una persona, sono considerati troppo bassi per impedire agli esemplari impazziti di saltare addosso a chiunque si muova. Per emozionare i nuovi ricchi della Cina, il mastino che proteggeva i bambini dei nomadi e i cuccioli degli yak è stato sfigurato nel fisico e trasformato in un killer. Prima di tutto, però, in un patrimonio.
La quotazione media di un adulto di tre anni è di centomila euro. I capi più colossali costano attorno a 300 mila euro. "Yangtze River II" ha toccato quota 385 mila e la sua piccola padrona di Pechino l´ha mandato a prendere da un corteo di venticinque Mercedes. Qualche settimana fa il record è stato polverizzato da "Hong Dong", cucciolo di undici mesi e ottantuno chili, dal raro pelo rosso: il proprietario "han" di una miniera di carbone della Mongolia Interna l´ha pagato 1,1 milioni di euro e ora l´affitta a 11 mila euro per eiaculazione. L´antica razza intatta così si mescola e si estingue nel nome del business made in China, emblema estremo della distruzione culturale, religiosa, umana e ambientale che sta cancellando l´intero Tibet. Sull´Himalaya i cinesi non mangiano i cani, come nel Sud, ma li tengono prigionieri e li uccidono per interesse, come fanno con gli umani. Nell´indifferenza ossequiosa di un mondo atterrito, ormai immemore dell´onore e del coraggio.