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 2011  giugno 05 Domenica calendario

IL LIETO FINE ANCORA DA TROVARE


Questo finale non era sul copione di Hollywood. Schiavi dell’«happy ending», gli sceneggiatori americani avrebbero senz’altro concluso il film della crisi più drammatica dai tempi della Grande Depressione degli Anni 30 con il trionfo del sogno americano. Purtroppo, però, la realtà economica americana non è diretta dal Frank Capra di «La vita è una cosa meravigliosa» o coreografata dal Gene Kelly di «Ballando sotto la pioggia».

A due anni dalla fine della grande recessione, l’economia più grande del mondo sta boccheggiando, messa alle corde da un mercato immobiliare anemico e dalle remore psicologiche di consumatori che non vogliono spendere più.

L’Europa non è da meno, incapace di cambiare le brutte abitudini, fiscali e di spesa, figlie di troppi anni vissuti al di sopra dei propri mezzi. Boccheggiante tra una crisi e l’altra – con l’intermezzo scandaloso e surreale di un presidente del Fondo monetario accusato di stupro –, il Vecchio Continente non sembra essersi accorto che l’inazione non è una politica economica produttiva. Basta chiedere agli Usa.

Questa settimana è stata uno stillicidio di cattive notizie che ha depresso un po’ tutti: dai mercati alla gente comune, da Wall Street alla Casa Bianca.
Dopo giorni dominati da un altro crollo nei prezzi delle case, tagli alle previsioni di crescita per il 2011 e numeri scoraggianti sul fronte dell’occupazione, la settimana è finita col botto. I dati ufficiali sulla disoccupazione usciti ieri hanno confermato che le società americane hanno creato solamente 54.000 nuovi posti di lavoro in maggio, molto meno del previsto. Il risultato ha spinto giù i mercati per la quinta settimana di fila, la più lunga striscia negativa dal 2004.

Per chi non ama i numeri, il riassunto è semplice: il ruolo dell’America come strapotenza economica è in dubbio e l’Europa sta forse anche peggio: l’Occidente fa fatica a risollevarsi dal tonfo della crisi. Le mie fonti – banchieri, politici e uomini di affari – sono di solito un modello di ottimismo, un misto di baldanza e arroganza che riesco raramente a mettere in discussione. Ma negli ultimi giorni, il mio ruolo è passato da scettico interlocutore a spalla su cui piangere. «Dai, dimmi qualcosa di divertente che altrimenti mi metto a piangere» è stata la prima cosa dettami da un gigante di Wall Street che normalmente mi inonda con rosee predizioni di crescita economica, nuovi record per il mercato azionario ed esplosioni nella compravendita di società.

Lo ammetto: l’idea che uno dei signori della finanza mondiale sia sull’orlo del pianto è improbabile: non ho prove scientifiche, ma sono quasi sicuro che la rimozione delle ghiandole lacrimali sia obbligatoria prima di entrare a Wall Street. Ma i problemi che hanno portato la mia fonte ad abbandonare la sua corazza di ottimismo sono reali. Come sempre in America, tutto passa dalle case. «Possedere un’abitazione è intrinsecamente americano, sacrosanto quanto il diritto di possedere una pistola», mi ha detto, senza ironia – ripeto, senza ironia – un membro del Congresso questa settimana. L’assioma è stato distrutto dalla crisi. Chiarifico: le vendite delle pistole hanno continuato ad aumentare, anzi sono state aiutate dalla recessione, ma il terremoto economico del 2007-2009 ha cambiato, forse per sempre, la relazione tra l’americano medio e la sua casa. I dati sono quasi irrazionali: i prezzi degli immobili sono caduti per otto mesi di fila e sono ormai a livelli più bassi di prima dell’inizio dell’ultima recessione. In 12 delle più grandi città americane, tra cui Miami, Las Vegas e Atlanta, le case sono meno care adesso che nel 2002. Persino a New York – tradizionalmente una delle città più care del mondo - bisogna tornare indietro nove anni per trovare case a questi prezzi. Con tassi d’interesse bassissimi, la legge del libero mercato predirebbe file gigantesche alle agenzie immobiliari, dozzine di compratori per ogni appartamento e casetta, ed un rialzo quasi immediato dei prezzi.

Non per la prima volta, però, il libero mercato non detta legge nell’economia reale. Nell’America di oggi, nessuno compra. Le ultime statistiche dicono che ci sono 15 milioni di case vuote negli Stati Uniti – 3 milioni più della norma –, nonostante il fatto che il costo di un mutuo non sia mai stato così basso da più di 50 anni.

Come’è possibile? La prospettiva – molto preoccupante per l’amministrazione Obama in vista delle presidenziali del 2012 – è che l’America stia vivendo un miracolo economico «al contrario». Invece di un circolo virtuoso in cui la crescita economica aumenta il benessere del Paese e crea nuove opportunità per aziende e lavoratori, la crisi delle case potrebbe essere la zavorra che affossa la ripresa.

Gli esperti parlano dei prezzi degli immobili come della cartina di tornasole dell’economia del consumo. Essere proprietari di un immobile che aumenta in valore ha un effetto psicologico che va ben al di là dell’apprezzamento del bene: la gente «si sente» più ricca e spende di più. L’Italia del boom degli Anni 60 – o l’America del 2002-2006 è un esempio perfetto: più macchine, più televisioni, più vacanze. Ma quando il prezzo della casa crolla o, peggio ancora, l’immobile deve essere svenduto per pagare le bollette, i consumatori entrano in uno stato di choc: non vogliono spendere più, nemmeno se i soldi ce li hanno. In teoria, un ritorno alla frugalità, dopo la sbornia del consumo eccessivo negli anni prima della crisi, non sarebbe tanto male. Il problema è che, senza il consumo, la disoccupazione rimane alta e la crescita economica fiacca, creando nuove ansie per consumatori e padroni di casa e ricominciando il circolo vizioso.

E’ successo in Giappone nell’ultimo decennio e potrebbe succedere negli Usa nel prossimo: questo è l’incubo che tiene sveglia la Casa Bianca e fa quasi piangere Wall Street. Bisogna dire che in America siamo ancora lontani dai livelli di ristagno economico stile-Giappone: l’economia Usa dovrebbe crescere del 2 per cento quest’anno, che non è malaccio nel contesto mondiale.

Il vero pericolo, però, non è nei numeri ma nella testa del consumatore americano. Ho scritto in passato che l’arma segreta dell’economia Usa – e di Obama – è la convinzione quasi fideistica che il destino del Paese è di essere ricco. Questo capitalismo dell’ottimismo è alla base del mito – perché di mito si tratta – del sogno americano, che promette ad ogni cittadino pari opportunità per migliorare il proprio status sociale e finanziario.

Poco importa che né la predominanza degli Stati Uniti sull’economia mondiale, né il benessere della popolazione siano una garanzia o una certezza perenne, la mera fiducia in questi «fatti» ha aiutato gli Usa a crescere più velocemente della cinica Europa e a diventare un mercato fondamentale per le tigri asiatiche e latino-americane. General Electric, Google e i giocattoli made in China in vendita a Wal-Mart hanno questo in comune: sono tutti figli del desiderio dell’americano medio di arricchirsi. Per gli ottimisti, questa qualità tipicamente americana non è stata cancellata dalla crisi, basta guardare alla nuova onda di società provenienti da Silicon Valley come Facebook. Un investitore astuto mi ha detto di recente: «Siamo come le lucertole, se ci tagliano la coda, ce ne ricresce un’altra». E forse ha ragione se parla di imprenditori, mercati e banche, che della determinazione hanno fatto un business. Ma non sono sicuro che i consumatori – soprattutto quelli senza casa e senza lavoro - siano della stessa opinione e siano in grado di sostenere l’economia sulle loro deboli spalle.

Le ultime sequenze nella pellicola della crisi non sono ancora state filmate, ma c’è il serio pericolo che invece di un finale allegro, l’americano medio, e forse anche il suo cugino europeo, voglia concludere con la famosa frase sussurrata da Rhett Butler in «Via col vento»: «Francamente, me ne infischio».