Francesco Olivo, Leggo 7/6/2011, 7 giugno 2011
CARCERE, BOTTE E VIDEOGAME
C’erano una volta i lavori forzati. Per la verità ci sono ancora, specie in Cina. Ma hanno decisamente cambiato volto, prendendo una forma più virtuale, ma non per questo meno violenta. In alcune galere, infatti, i prigionieri sono condannati a passare ore davanti al computer. Non si tratta di benefici premio, ma di vere torture. Dirigenti e guardie del campo di Jixi costringono, infatti, i detenuti a smanettare per 12 ore al giorno con i giochi di ruolo, per accumulare crediti, che poi le stesse guardie rivendono sul mercato nero.
«Chi si rifiuta viene picchiato con tubi di plastica», ha raccontato al Guardian Liu Dali, uno dei forzati del videogame. La vicenda incredibile si spiega, almeno in parte, con il boom dei giochi di ruolo nel paese asiatico (e non solo). In questi mondi virtuali, i personaggi evolvono soltanto dopo lunghissime sedute davanti al computer. Queste eterne procedure hanno favorito il commercio illegale di profili: in sostanza chi non ha pazienza può comprare personaggi cresciuti da altri utenti. Da qui la brutale intuizione degli sgherri cinesi: sfruttare la manodopera gratuita dei prigionieri, molti dei quali rinchiusi per motivi politici. Se il fenomeno è uscito dal buio delle celle è grazie al coraggioso racconto di Liu: «Ci sono 300 prigionieri costretti a giocare. Le guardie arrivano a guadagnare fino a 650 euro al giorno, noi neanche uno». Nessuno rimpianga le rieducazioni di Mao. Ma un mouse alle volte può essere peggio dell’aratro.