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 2011  giugno 05 Domenica calendario

LORENZETTO INTERVISTA GIANNINO MARZOTTO - Il Giornale, domenica 5 giugno 2011 «Scarpe bone, bel vestito, vitto sano, vin sincero, bele case

LORENZETTO INTERVISTA GIANNINO MARZOTTO - Il Giornale, domenica 5 giugno 2011 «Scarpe bone, bel vestito, vitto sano, vin sincero, bele case...». Quel 28 agosto 1954, un sabato, Giannino Marzotto sedeva alla sinistra del padre Gaetano, monumento del capitalismo italiano. Da figlio, e da direttore centrale fresco di nomina, ascoltava emozionato il leggendario imprenditore di Valdagno, colpito sei anni prima da un infarto, che un po’ in dialetto vicentino e un po’ in italiano dettava a braccio alle maestranze della Società fondiaria agricola industriale, una delle aziende del gruppo tessile, il suo programma di vita, l’anticipo di un testamento dal valore universale, tale da poter ancora oggi essere assunto a Costituzione di una repubblica che si dice fondata sul lavoro: «Svaghi onesti, la fameia, i tosi, i veci, fede in Dio, mutuo rispeto, pace e bona volontà. Lavorar con atension, con impegno, in dignità. Buon guadagno e cuor contento, vita agiata, ma el risparmio xe sempre necesario par formar la proprietà. Sempre usar moderasion, toleranti co’ la zente, boni amissi solidali nela gioia e nel dolor. Andar drio par la so strada, no’ far ciàcole par niente, no’ badarghe ai fanfaroni, ai busiàri, ai mestatori. Sempre pronti ai so doveri, far valer i so diriti, e difender tutti uniti patria, vita e libertà». Scarpe bone: soprattutto comode, come si conviene a un gentiluomo di campagna che ha compiuto 83 anni il 13 aprile. Bel vestito: camicia azzurra, pulloverino di cachemire sulle spalle, pantaloni di velluto. Vitto sano: soppressa, guanciale, sformato con piselli di Lumignano, ciliegie di Marostica. Vin sincero: Durello dei Lessini, «è meglio del Prosecco, lo pago appena 4 euro la bottiglia, perché io conosco il valore del sudore e quindi sono tirchio». Bele case: qui si apre un capitolo che spiega tutto della personalità di chi le abita. Giannino Marzotto dei conti di Valdagno Castelvecchio potrebbe abitare nella Villa Trissino, sorta su una roccaforte dell’XI secolo e circondata da statue, are romane, giardini all’italiana, fontane ottagonali, viali, serre, scuderie e limonaie, che in effetti è stata per quasi mezzo secolo la sua residenza. Sì, ma poi come riuscirebbe ad aprirla a 15.000 visitatori l’anno? E dove terrebbe la Festa nonni-nipoti, che all’insegna della spensieratezza mette a confronto due o tre generazioni di vicentini nel giardino di cui egli si dichiara semplicemente «custode»? E come farebbe a ospitarvi la Caccia alle uova che da 16 anni, il Lunedì dell’Angelo, raduna nei 20 ettari di parco migliaia di bambini con le loro famiglie? «Ogni due uova sode che scovano nell’erba, ne ricevono uno di cioccolato». Ne nasconde 6.000 del primo tipo e ne regala 3.000 del secondo. Lo fa in ricordo della madre Margherita Lampertico, che a Pasquetta era solita organizzare lo stesso gioco, perché la Valdagno progettata dal marito Gaetano era la Città sociale dove Marzotto, el parón, costruiva sibi et suis, e quindi le ville per i dirigenti e gli alloggi popolari per gli operai, l’ospedale, l’asilo, le scuole elementari, la casa di riposo, la fattoria modello, il panificio, ma anche il teatro, il dopolavoro, le colonie estive al Pian delle Fugazze e a Jesolo. Così el siór conte già da molti anni ha riservato la villa di rappresentanza alla filantropia e s’è ritirato in quella che lui ha ribattezzato la Casa di pietra, un vecchio mulino per la segatura del legno riattato ad abitazione, con annessa corte colonica, lungo la statale 246 che da Trissino porta a Valdagno. Da ex corridore automobilistico, vincitore di due Mille miglia, in giardino ha voluto piazzare il monumento al Culo, cioè il rottame della Iso Rivolta con cui il 19 marzo 1976 andò a schiantarsi contro un platano, uscendone vivo per miracolo sia pure con 17 fratture, «guarite alla media di due soli giorni per osso, sconto quantità». Non che qui al mulino si sia dato a vita cenobitica. Lo scorso anno, come in questi giorni, sotto le barchesse addobbate con un tricolore lungo 100 metri era tutto un fiorire di galabie, sari e turbanti arancioni, blu e neri: Marzotto aveva deciso di invitare a pranzo 500 immigrati extracomunitari di 50 diverse etnie per la Festa dell’accoglienza, che sarà ripetuta in autunno. S’è occupato personalmente del menu affinché fosse rispettoso di tutte le fedi religiose: cuscus con agnello, pollo con peperoni, gamberoni al curry e l’immancabile poènta e tòcio, che nei luoghi ove non fiorì la civiltà veneta della polenta è noto anche come spezzatino. In questo genere di regìe è assistito dalla fama di gourmet impenitente e chef provetto, nonostante lo abbiano cacciato per tre volte dall’Accademia italiana della cucina. La scomunica definitiva gli fu inflitta per essersi offerto di preparare ai soci inorriditi un pranzo a base di quinto quarto: «Sarebbe il compenso che va al macellaio per il suo scrupoloso lavoro chirurgico, in sostanza le interiora di qualsiasi animale», specifica con la competenza che gli deriva dall’essere stato a 16 anni garzone in una macelleria sul confine italo-svizzero, vicino a Luino, dov’era sfollato in tempo di guerra. Ma questi non sono che i cascami di una sfarzosa generosità. Nel 2005 il conte Giannino s’era segnalato alle cronache per aver devoluto un milione di euro a Forza Italia e nel 2006 per una cena organizzata in onore di Silvio Berlusconi a Villa Trissino. Un altro milione lo consegnò alla Lega di Umberto Bossi. «Adesso, raggiunta l’età in cui mi sono autoconsiderato moribondo, dunque non più morituro, ho pensato che avrei potuto lasciare ai posteri qualcosa di permanente che rappresentasse un ponte fra passato e futuro. Ho molti discendenti abbastanza ricchi. Gaetano Marzotto ci ha insegnato a privilegiare l’iniziativa rispetto alla possidenza, senza tuttavia scordare l’attenzione per gli altri, in altre parole i doveri verso la collettività». Detto fatto: d’accordo con le tre figlie, Margherita, Cristiana e Maria Rosaria, che hanno rinunciato a una parte della loro eredità, ha destinato 76 milioni di euro alla Fondazione Progetto Marzotto e all’omonima associazione. Di questi, 53 milioni sono rappresentati da un immobile e da 12 tele ottocentesche, fra cui In vedetta, il capolavoro di Giovanni Fattori conosciuto anche come Il muro bianco, e il Mercato del sabato a Campo San Polo di Giacomo Favretto: appese alle pareti di sasso dell’ex mulino gli sono rimaste solo le copie. Altri 20 milioni di liquidità, «diventati nel frattempo 23 perché si vede che li abbiamo investiti bene», sono andati in dotazione all’associazione Progetto Marzotto che ogni anno, per almeno un decennio, dovrà assegnare 400.000 euro a tre giovani «creatori di futuro» che si siano fatti venire un’idea tanto brillante da poter diventare un’azienda. Avrebbe voluto esserci lui a Torino, lo scorso 26 maggio, a presentare il premio Gaetano Marzotto «per una nuova impresa italiana». Ma, come ha scritto nel messaggio letto dal suo braccio destro Ferdinando Businaro, «un inatteso tumore alla gola mi costringe fermo e senza voce, vittima di pesanti cure radioterapiche». Oggi che ha riacquistato il dono della favella, continua ad accendersi una Ms via l’altra - «be’, però smetto di fumare circa 50-60 volte al giorno» - e si rammarica solo di non essere riuscito a centrare il target che s’era prefissato: «Un milione e mezzo di sigarette nel corso della vita. Mi sa che dovrò fermarmi a un milione e 250.000». La sintesi è questa: l’uomo che si proclama «unico pagano della provincia di Vicenza» ha deciso di onorare il padre nominandolo suo erede universale. Non sa di onorare, in tal modo, anche il quarto comandamento. O forse lo sa benissimo. Un pagano che si attiene al decalogo consegnato da Dio a Mosè sul Sinai. Curioso. «Dio è un’espressione convenzionale. Io credo nel concetto che Dio rappresenta. Dio è ai confini della nostra conoscenza, o ignoranza: ogni volta che scopriamo una cosa, spostiamo Dio un po’ più in là. Una volta dicevano: “Dopo il monte c’è Dio”. Poi al di là del monte scoprivano una valle e dicevano: “Dopo la valle c’è Dio”. È lo stesso anche oggi. Dio è un modo per placare l’angoscia dell’infinito. La fede toglie il problema del mistero. Io non ho paura del mistero. La natura mi ha fatto in modo tale che resteranno nella mia vita sempre dei misteri. Non mi turbano affatto. Molti invece li affrontano affidandosi alla fede in Dio e così chiudono la pratica. Da amministratore delegato una volta inventai personalmente lo slogan per una pubblicità che doveva uscire sulla seconda di copertina del Borghese: “L’abito non fa il monaco, ma Marzotto veste da Dio”. Leo Longanesi, che era un laico, lo respinse. Lo considerava blasfemo. Non ho mai capito perché. Sono un pagano, sì. Ma non è detto che i pagani non credano in Dio. È importante anche per un pagano, Dio. Però non voglio che si occupi dei miei guai. Magari andrò all’inferno per questo. Considero una forma di narcisismo pensare che Dio debba interessarsi di ogni bagatella del mondo». In memoria di suo padre ha istituito anche una cattedra universitaria presso la facoltà di design della moda dello Iuav di Treviso. «Alla base di tutto c’è il mito di Gaetano Marzotto. Io ci ho messo solo la fedeltà ideologica. Esistono uomini che scrivono la loro storia sulla carta, altri sulla pietra. Lui l’ha scritta sulla pietra, a Valdagno e non solo a Valdagno. Il giorno in cui io credetti di poterne scrivere un pezzettino sulla carta, redigendo un organigramma aziendale, mi fulminò con lo sguardo: “A che serve? Abbiamo già l’elenco dei telefoni interni. E ognidùn sa quel che xe el so posto! Importante xe arivar bonóra in uficio la matina”». Ha destinato 27 borse di studio del valore di 1.500, 1.000 e 750 euro ad altrettanti allievi delle scuole del Vicentino per il concorso L’Italia che vorrei. «Lo rifaremo ogni anno, non solo per il 150° dell’Unità. Mi piacerebbe portarlo nel resto del Paese. Ascoltare la voce delle nuove generazioni per capire le esigenze del domani». E per distogliere lo sguardo dall’oggi. «Dopo la Liberazione vi fu uno sforzo collettivo ed entusiasta per giungere alla ricostruzione del Paese. Il risultato fu il miracolo italiano. Ero in fabbrica negli anni Cinquanta e ricordo che arrivammo a 307 giorni di lavoro. Si riposava solo la domenica e nelle sei feste comandate. Il Prodotto interno lordo e la prosperità individuale crebbero. La ricchezza nazionale aumentò significativamente. Le famiglie probe potevano mangiare anche durante la quinta settimana del mese. La paga oraria era bassa, ma anche il pollo costava poco, e nulla il canone tv. Il Nord si sviluppò di più, il Sud rimase indietro nonostante gli aiuti della Cassa per il mezzogiorno. Ciò aggravò il conflitto politico che mirava, allora come ora, alla conquista di voti. Voto uguale potere, potere uguale denaro: non sempre, ma spesso». Continui. «Lo Stato cominciò a intromettersi nella vita delle imprese, più precisamente ovunque vi fossero cospicui capitali da gestire o da spendere, e voti da guadagnare. Nacque così il disprezzo per i padroncini, simboli del paternalismo, e fiorirono le cattedrali nel deserto, opere pubbliche spesso lasciate incompiute. Adesso ci lamentiamo che manchino i soldi, ma scordiamo come e quando furono dissipati. Il disegno di allora giovò certamente alla politica: assunzioni raccomandate, gestione di commesse, concessione di licenze. Divenne convinzione diffusa che non fosse fondamentale guadagnare, bensì distribuire. Importante era mangiare la torta, non produrla. Ma dove è più larga la presenza dello Stato, più sono anche probabili corruzione e concussione, parenti strette della tentacolare burocrazia e delle infinite licenze». Tangentopoli fu il risultato. «Ci siamo affidati alla magistratura, dimenticando che in Italia c’è incriminazione facile, sentenza difficile, condanna improbabile. Una nazione con oltre 200.000 leggi, tante ne ha abrogate il governo Berlusconi, è prigioniera di un mostro dal duplice costo: quello diretto, che grava sul bilancio dello Stato, e quello indiretto, che fa perdere un sacco di tempo ai cittadini, taglieggia i redditi e impone tassazioni sempre più onerose». Come se ne esce? «Le idee camminano sulle gambe degli uomini e le assicuro, per esperienza personale, che intorno agli 80 anni il passo diventa incerto. Benito Mussolini affermava che i giovani sono le pupille dell’avvenire. Ebbene, senza essere nostalgico, dico che un ringiovanimento dei quadri è indispensabile. Nella mia famiglia, che gestisce da 175 anni imprese libere senza aver mai avuto benefici dallo Stato, il comando è sempre stato dato ai giovani. Gaetano, figlio del fondatore Luigi, prese in mano le redini a 22 anni, mio nonno Vittorio Emanuele a 28, mio padre Gaetano a 26, io a 27, mio fratello Pietro a 31». Si comporta con coerenza: ha dato sulla parola 1,8 milioni di euro al professor Ruggero Frezza, che ha lasciato la cattedra all’Università di Padova per aiutare i suoi studenti a diventare imprenditori e a realizzare le loro idee innovative. «Sono diventati 3 milioni». Il docente mi ha raccontato che lei gli disse: «Frezza, si ricordi che il percorso è più bello del traguardo». «Sono vecchio, quindi non devo guardare al risultato di domattina. Stranamente ha meno fretta un anziano che un giovane. E poi il vecchio mette in conto anche il fallimento, mentre il giovane pensa solo al successo. Nel 1946 conoscevo già ogni angolo della Marzotto. Spiegai a mio padre che dovevamo fare ricerca, ma non attraverso i capireparto, obbligati a pensare solo al lavoro del giorno seguente. Serviva un’azienda autonoma. Mi obiettò: “Ma Nineto, xe un rischio”. Lo so, gli risposi. “E alora rischia!”, concluse. Fondai la Rimar, acronimo di Ricerca Marzotto. Inventammo il primo tessuto antimacchia, abolimmo l’acqua nei processi produttivi». Un pallino che le è rimasto, la ricerca. «Le difficoltà ci vengono incontro per essere superate, non per lamentarcene. M’interesso di qualsiasi problema e ho il vantaggio d’avere collaboratori intelligenti che condividono le mie idee. Non tutte, per fortuna. Con la Qid nanotechnologies puntiamo a ottenere, anche usufruendo del sincrotone di Trieste, succedanei del platino utilizzato nella produzione delle marmitte. Il consumo mondiale di questo metallo prezioso, che costa 1.800 dollari l’oncia contro i 1.500 dell’oro, è elevatissimo. Con la Santex produciamo macchine per le fibre di carbonio. E poi concorriamo ai test clinici del professor Pier Francesco Parra, un chirurgo che ha curato con successo campioni dello sport come Alberto Tomba, Gelindo Bordin, Ivan Ljubicic e Rafael Nadal e che sta lavorando a un laser in grado di rigenerare i tessuti muscolari». E nella Marzotto che cosa fa? «Il vecchio appassionato. Sono usufruttuario dell’11 per cento di azioni delle mie figlie. Spero che dia dividendi. Nel 1961 la portai in Borsa. Nel 1968 sopportai 84 giorni di occupazione violenta, cominciata 48 ore dopo che ero stato nominato da mio padre presidente e consigliere delegato. La Marzotto fu invasa dai katanghesi, gruppuscoli armati con sbarre di ferro giunti da Trento e ispirati, si mormorava allora, da Renato Curcio e Toni Negri. Quando l’anno dopo la lasciai, nella Valle dell’Agno contava ancora circa 7.000 dipendenti: l’occupazione era stata salvaguardata. Sindacati e successori l’hanno ridotta a 600. Io ci sono ancora, gli altri no». Lei fu anche uno dei primi a uscire dalla maison Valentino. Perché? «Considero la moda un capriccio. E a me i capricci non piacciono». Aveva rapporti col celebre stilista? «No». Come mai i Marzotto sono tendenzialmente di sinistra? Spesso dichiaratamente, come i suoi fratelli Paolo e Pietro, sua figlia Margherita, l’ex moglie di suo fratello Umberto, Marta, con la figlia Paola dipietrista e la nipote Beatrice Borromeo passata da Annozero al Fatto quotidiano di Marco Travaglio. «Paolo e Pietro hanno idee nettamente divergenti». Paolo, finanziatore del centrosinistra, ha dichiarato: «Sapevo che in politica mio fratello Giannino era confuso. Ma sono veramente dispiaciuto che un membro della nostra famiglia possa riconoscere dei valori nello scandalo che è stato perpetrato nella politica in questi anni». «Paolo vagheggia una sinistra di tipo nordeuropeo». Pietro ha appoggiato Massimo Cacciari e sembrava che dovesse diventare ministro in un governo D’Alema. «Pietro probabilmente è geloso di Berlusconi». Però non ha risposto alla mia domanda. «Ho tanti parenti di sinistra perché il collettivismo è menscevico, è potere delle élite che credono di sapere tutto e giudicano imbecille il popolo. Il bolscevismo che ha imperato per 70 anni, e che ha fucilato i menscevichi, è morto e sepolto. Ma il menscevismo è rinato da Bruxelles a qualsiasi governo, inclusa una parte di quello presieduto da Berlusconi. Io sono sempre stato un discepolo di John Locke, il primo teorico del regime politico liberale, e quindi l’unico che in famiglia non si appellava a Marx ed Engels. I miei fratelli Paolo e Pietro sono menscevichi: tanto di cappello. Ma tutti gli altri che ha nominato appartengono alla gauche caviar». Più caviar che gauche. «Marta, la mia ex cognata, mi è simpatica. Idem la sua nipotina Beatrice. La vedevo in Tv con quel cane di Michele. Bravissimo, eh, Santoro. Però non condivido quello che dice. Mi piacciono anche Lucia Annunziata e Giovanni Floris, le cui idee condivido ancora meno. Apprezzo persino Report di Milena Gabanelli e ogni volta alla fine mi dico: bel menu, ma il pasto dov’è? Mai che ti metta nel piatto una fettina di soppressa». Che cosa ha ricevuto in cambio per aver dato un milione di euro a Forza Italia e uno alla Lega? «Tutto quello che volevo. Cioè nulla». Manco una leggina? «Se fossi il presidente del Consiglio, abolirei il gioco d’azzardo gestito dallo Stato, che brucia 80 miliardi di euro l’anno, 1.350 euro per cittadino, lattanti compresi, l’equivalente di uno stipendio mensile. Invece del Gratta e vinci, che si grattino le balle!». Allora perché l’ha fatto? «Per rispettare la tradizione familiare che vide mio bisnonno, mio nonno e mio fratello Vittorio Emanuele per decenni in Parlamento sotto la bandiera liberale. Forza Italia s’è presentata come liberale, riformista, antiburocratica: mi pareva giusto aiutarla. Ho stima per Berlusconi, anche se non m’ispira alcuna simpatia. Casomai invidio le sue compagnie, che spartirei volentieri con lui se solo avessi dieci anni di meno». Non mi dica. «La donna è un demonio senza il quale la vita sarebbe un inferno. Ma vede bene che su questo versante sono in ritardo, come tutti i vecchi. Voterò ancora per il Cavaliere. Purtroppo le mie disponibilità economiche non sono più quelle di prima. Fra l’altro, non avendo mai voluto diventare dirigente d’industria, non percepisco nemmeno la pensione. Altrimenti tornerei a finanziare il Pdl. Non sono affatto pentito del milione di euro che gli ho regalato. Anzi, la considero una delle poche opere buone che ho compiuto negli ultimi anni». Lo stesso vale per Bossi? «Certo. Io sono attaccato al territorio e la Lega protegge il territorio. Vede, nel 1986 mancai per un migliaio di voti l’elezione a senatore nelle liste del Pri. Da uomo fedele alle radici mi accorsi allora che la politica era solo fronda. Siccome la Lega ama le radici, io amo la Lega. Una sera ero nei dintorni del Montello, dove abbondano i cimiteri militari della Grande guerra. Un’autorità pubblica che era in auto con me bisbigliò: “Guardi, guardi quante croci. E pensare che qui votano tutti per la Lega!”. Gli risposi: forse proprio per questo». Sua figlia Margherita la censurò con una lettera al Corriere della Sera: «Avrei preferito che mio padre finanziasse associazioni umanitarie come Emergency o Medici senza frontiere». «Ho educato le mie figlie a essere libere nell’espressione e nel pensiero. Fece benissimo a segnalarmi la sua contrarietà. È discutibile l’aver utilizzato come mezzo il Corriere. Ma non mi disturbò più di tanto». Sua figlia se la prese, senza nominarlo, non solo col Berlusconi politico ma anche col Berlusconi imprenditore televisivo, reo di martellare gli italiani, fin da bambini, con «immagini in cui ricchezza e bellezza e fama sono i valori fondamentali a prescindere dai prezzi pagati per raggiungerli». «Sono d’accordo al 100 per cento. La Tv in larga parte non informa, ma conforma. Qualcosa di assai simile alla circonvenzione d’incapace. Guardi come ci sta raccontando i bombardamenti in Libia. Gli eroi dell’aviazione... Che cosa c’è di eroico nel combattere solo dal cielo un nemico straccione? E adesso sembra anche che la coalizione sia in difficoltà perché ha finito i soldi per le bombe. Ma vaffanculo!». Come fa a conciliare il suo terzomondismo con la linea della Lega, che vede nell’immigrazione una minaccia? «Faccio a meno di leggere tutte le dichiarazioni di Bossi. V’è una certa differenza fra chi aderisce a un’ideologia e chi se ne fa seguace. O segugio. Che poi, più che ideologia, la chiamerei idea, perché l’ideologia è un complesso di idee eretto a bugia». Perdoni il bisticcio di parole, con gli irregolari come si regolerebbe? «Ogni Paese ha un limite di capienza. E un ladro va messo in galera o va espulso». Come risolverebbe la grana di Lampedusa? «Porterei i clandestini con una nave a Beaulieu-sur-Mer o in qualche altra località della Costa Azzurra. In stagione turistica, però». Non ci costerebbe meno fare incetta di tutti i barconi nei porti del Nordafrica, comprarli e regalarli ai pescatori di Mazara del Vallo oppure affondarli? «Concordo». Se invita a pranzo 500 immigrati, significa che lei, più che atterrito dallo scontro di civiltà, è attratto dal loro incontro. «Sono indifferente. Ho dato una risposta individuale col cuore. Non ho abbastanza cervello per dare una risposta collettiva». Ma i veneti sono razzisti e xenofobi come li dipinge la stampa nazionale? «Non lo credo affatto». Quanto ha destinato finora in beneficenza? «Mio padre mi ha insegnato: “Ricòrdati di fare le cose e diménticati d’averle fatte”. È la mia risposta alla sua domanda». Da dove trae origine questo sacro fuoco del mecenatismo? «Innanzitutto dalla mia età, che m’impone di operare concretamente a favore delle idee praticate per tutta la vita. Poi dal rispetto del patrimonio reale e d’immagine che ha accompagnato il cognome Marzotto nella storia d’Italia. Infine dal poco tempo rimastomi a disposizione, che mi sprona a spenderlo utilmente». Il senso sociale dell’impresa s’è smarrito. Gaetano Marzotto costruì una città, Valdagno, a misura dei lavoratori. I suoi colleghi di oggi pensano solo a farsi lo yacht. «È giusto che ciascuno spenda i propri soldi come vuole. Però il lusso sfrenato mi dà fastidio. È una questione di misura che nasce dalla cultura personale. Tra comfort e lusso c’è la differenza che passa tra piacere e vizio. Lo ammetto: papà ha vissuto nel lusso, io pure. Ma non l’ho mai esibito». A parte le Ferrari. Tanto che suo padre invitò voi figli a darci un taglio: «Basta con quei bolidi rossi!». «Ma solo perché le riteneva troppo veloci e quindi pericolose. Io e Umberto lo accontentammo comprandoci una Ferrari azzurra e una bianca, Paolo continuò con la rossa e a un passaggio a livello sul percorso della Mille miglia mancò di poco un direttissimo attraversando i binari a 160 chilometri orari. Pietro era troppo piccolo per la Ferrari. Mi pare che poi abbia corso in moto». Infatti vi chiamavano i «conti correnti», un doppio senso riferito anche alla posizione patrimoniale. «La velocità non mi dà alcuna ebbrezza. La trovo utile. Alla mia età percorro ancora 20.000 chilometri l’anno senza rispettare i limiti di velocità, mai. Solo quelli di prudenza». Cioè? «Di notte, in autostrada, i 200. Una volta ho toccato i 309. Di giorno, sulla Serenissima, arrivo ai 190. In genere vado ai 160. E non ho mai preso una multa». A 67 anni annunciò di voler correre a 270 chilometri orari sull’autostrada della Valdastico per farsi ritirare la patente. L’ha poi fatto? «No. Era una disfida ironica. Ma nell’Italia dei guelfi e dei ghibellini i giornali la presero subito per seria. Si figuri, a quel tempo avevo un camper. Come avrei potuto?». Con una Ferrari Le Mans azzurra vinse la Mille miglia nel 1950, davanti a Teodoro Dorino Serafini, arrivato secondo, e a Juan Manuel Fangio, terzo, correndo in doppiopetto. «Successo bissato tre anni dopo con una Ferrari 12 cilindri 4100, alla media di 142 chilometri orari. Quella volta Fangio si piazzò secondo». Comunque neanche suo padre era un pantofolaio: sopravvisse a tre incidenti aerei. «Mi sembra che fosse il 1928 quando precipitò in Belgio col suo monomotore Junkers. Spedì a mia madre una cartolina con scritto: “Basta! Gaetano”. Fu di parola: smise di volare. Da qualche parte devo avere una copia del Bollettino Lanificio su cui era riprodotto un disegno dell’aereo piantato in mezzo al lago, con la didascalia: “Il nostro Signor Titolare ha avuto un piccolo incidente”. A vent’anni dal conseguimento del brevetto, e nonostante le 4.000 ore di volo accumulate, la stessa cosa accadde a me nel prato dietro casa con un ultraleggero da 90 cavalli». Il gusto del rischio ce l’ha nel sangue. «Ho sempre scelto sport individuali, liberali, solitari, quelli in cui se commetti un errore paghi di persona, dall’alpinismo alla pesca subacquea». Ha preso la vita a morsi. «Me ne sono sempre fregato dei medici e delle raccomandazioni. Ho fatto meno esami del sangue che ho potuto. Le analisi cliniche sono foriere di disgrazie». Talvolta le prevengono. «Ogni prelievo di sangue o radiografia scopre un altro guaio, creda a me». S’è definito «per metà stoico e per metà epicureo». «Ma non saprei dirle perché. Mi sono sempre chiesto che differenza ci sia tra personalità, carattere e temperamento. Me la descriva, se ne è capace! Mi riconosco personalità forte, carattere scontroso e temperamento testardo, “gatto di piombo” mi dicevano da bambino». Epicureo quanto? «Il solo vero spazio di libertà che rimane all’uomo è la soddisfazione dell’appetito. Ho imparato di più stando a tavola con mio padre che sui banchi dell’università». S’è definito anche «un derampicatore sociale». Che significa? «Che non m’importa nulla d’arrampicarmi». Lo credo bene: era già in vetta nell’attimo in cui fu partorito. «Questo può essere». Ma davvero voi Marzotto discendete da Marzuk, un soldato turco fermatosi nel Veneto dopo l’assedio di Vienna? «So che lo dicono». Lo diceva suo padre, che aveva commissionato una ricerca genealogica nella Biblioteca vaticana all’amico Alcide De Gasperi. «Cassi soi». («Cazzi suoi», ndr). Ma lei ci crede a questa ascendenza ottomana? «Non me ne importa nulla». Giustificherebbe la sua simpatia per gli extracomunitari. «A me piacciono gli imprevisti e le probabilità». Come nel gioco del Monopoli. «La vita è fatta di entrambi. Il progenitore turco potrebbe essere un imprevisto o una probabilità». Perché ha smesso di frequentare Cortina, che è una seconda Valdagno per i Marzotto? «Perché è mondana e io detesto la mondanità. Perché ho abbandonato da tempo lo sci, sport per imprudenti. Perché vi si mangia male, nei rifugi addirittura di peste, mentre io quel poco che mangio voglio che sia buono. Soprattutto perché a Cortina si parla del nulla. Sull’altare della volontà altrui sacrifico molto, ma sull’altare dell’abulia neanche un po’». C’è una persona di fronte alla quale s’è sentito in soggezione? «Igor Stravinskij, il compositore russo morto nel 1971. Senza conoscerlo. Solo ascoltando la sua musica». Stefano Lorenzetto LORENZETTO Stefano. 54 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama, First e Monsieur. Dieci libri: Cuor di veneto e Il Vittorioso i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.