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 2011  giugno 05 Domenica calendario

STATI UNITI, LA FABBRICA DELLE «BOLLE»

Il gruppo Ardagh, società di packaging irlandese, il vero pacco l’ha rifilato agli investitori. A metà maggio è infatti riuscita a vendere a fondi americani ed europei un prestito obbligazionario che definire rischioso sarebbe riduttivo: il bond ha un rating da quasi-insolvenza (Caa1/B-), è emesso da una società irlandese (dunque ha anche un elevato rischio-Paese) e per contratto non paga interessi in contanti. Eppure grazie a un rendimento dell’11,13%, in fondo neppure così elevato data l’estrema rischiosità, il gruppo Ardagh è riuscito ad attirare l’interesse di così tanti investitori che ha potuto addirittura aumentare l’importo dell’offerta. Insomma: fondi e banche hanno aderito con gioia a questo collocamento obbligazionario. Per un motivo banale: hanno troppi soldi. La politica monetaria di molte banche centrali, a partire dalla Federal Reserve americana, ha "creato" così tanta liquidità che gli investitori non sanno più dove metterla. La investono ovunque: in titoli sicuri, rischiosi o da spericolati. Tutto va bene. Anche i pacchi di Ardagh.

La fabbrica delle bolle

Ardagh può essere forse l’emblema della grande speculazione. Ma in realtà di bolle ce ne sono potenzialmente tante altre. C’è quella sui titoli di Stato Usa: il rischio degli Stati Uniti aumenta, ma i rendimenti dei T-Bond sono sui minimi. È un paradosso, ma banche e fondi se li strappano di mano come fossero d’oro. Per non parlare dell’oro, quello vero: le sue quotazioni viaggiano sui massimi storici. Insieme a quelle dell’argento. E che dire di Wall Street? L’economia americana fatica a smaltire i postumi della crisi, ma la Borsa di New York vola, con rialzi di oltre il 20% dall’estate scorsa. E il primo social network che si quota, cioè Linkedin, viene accolto con un +109% il primo giorno, salvo sgonfiarsi dopo. Ci sono poi bolle in vista sui Paesi emergenti. Perfino le obbligazioni legate ai mutui Usa, quelle fino a poco tempo fa definite «tossiche», sono tornate a stuzzicare l’appetito degli investitori.

Se si parla con gli operatori, tanti trovano giustificazioni per ognuno di questi mercati. Le azioni? Sono ancora sottovalutate – dicono – dunque è giusto comprarle. I titoli di Stato Usa? Scontano un prolungato periodo di tassi bassi – affermano – e dunque è sensato acquistarli. I corporate bond? Hanno un valore relativamente attraente rispetto ai dividendi delle azioni – aggiungono – e dunque offrono buone opportunità. I paesi emergenti? Sono il futuro e dunque è corretto puntare su di loro. Tutte queste spiegazioni hanno dei fondamenti di validità, certo. Ma ricordano un po’ troppo le tante giustificazioni che a fine anni ’90 si davano per spiegare il rialzo dei titoli hi tech.

La realtà, forse, è un’altra. Se si guarda l’andamento di tutti questi mercati (nel grafico a fianco), si scopre infatti che il fattore scatenante del grande rally generalizzato è probabilmente uno solo: l’inondazione di liquidità da parte della Federal Reserve (anche attraverso il cosiddetto quantitative easing che ora sta per terminare) e delle altre banche centrali. In due anni la Fed ha aumentato la base monetaria negli Usa del 198%. I grandi investitori e le grandi banche hanno disponibilità immensa di denaro a bassissimo costo (basta prenderlo in prestito negli Usa dove i tassi sono a zero), per cui qualunque investimento risulta nel breve periodo conveniente. L’aspetto triste è che questa inondazione di liquidità ha creato tanta speculazione ma non ha ancora dato una scossa all’economia reale e all’occupazione. Insomma: la politica monetaria ultra-espansiva per ora ha fatto felici banchieri e speculatori, non ancora i cittadini.

Guadagni nel breve, rischi nel lungo

Markus Brunnermeier, docente alla Princeton University ed esperto di crisi, vede molteplici segnali premonitori: «La crescente correlazione tra i prezzi delle materie prime, energia compresa, è segno di attività speculativa». Ancora: «Gli hot money, i flussi di capitale di breve periodo, sono un problema irrisolto per i mercati emergenti», che gonfiano le quotazioni dei loro bond e delle loro Borse. A Wall Street considera più difficile gridare agli eccessi, ma non li esclude. Anche Mickey Levy, capoeconomista di Bank of America e uno dei grandi guru americani di politica monetaria, ha le proprie riserve. Non è mai stato un fautore delle ultime manovre di Bernanke sulla liquidità. «Hanno aiutato ben poco l’economia reale – dice –. E senza il quantitative easing il mercato azionario non sarebbe agli attuali elevati livelli». Levy invita tuttavia alla cautela nel lanciare allarmi sui mercati. «Credo che in termini di prezzi non ci siano nell’insieme enormi eccessi, del tutto slegati dalle condizioni di fondo».

Può darsi. Il problema della grande speculazione sta nel lungo termine: cosa accadrà quando, tutti insieme, gli investitori decideranno che è ora di finirla? Cosa accadrà quando il denaro, anche negli Usa, inizierà a non costare più zero? Il professor Markus Brunnermeier teme proprio questo: che prima o poi «qualcosa vada storto». Una bufera sui mercati emergenti, problemi in Cina come in Germania o sul debito europeo: qualcosa che inneschi in un clima già teso gravi reazioni a catena. Negli ambienti finanziari Usa va di moda una sigla: IBG. È l’acronimo di «I’ll be gone». Tradotto: per ora speculo, intanto quando tutto inizierà a crollare «io me ne sarò già andato». Il problema è che lo pensano in tanti: immaginate cosa accadrà quando tutti «se ne andranno»...