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 2011  giugno 06 Lunedì calendario

SHALE GAS, L’ULTIMA FRONTIERA DELL’ENERGIA

Le notizie sono due. Come spesso accade, una bella e una brutta. Cominciamo da quella bella.

I timori di una crisi petrolifera all’orizzonte, ovvero i dubbi sul futuribile incontro fra la domanda (in salita, per effetto della demografia e della crescita economica) e l’offerta (in discesa, perché le scoperte non compensano il declino dei giacimenti in produzione) potrebbero essere infondati.

La Shell, che ha appena finito di costruire un impianto pilota nel Qatar per trasformare i gas in liquidi – tramite il procedimento Fischer-Tropsch, ideato ai tempi della Germania nazista – dice che potrebbe implementare la tecnologia anche in America, e trasformare a piacimento lo shale gas in diesel o in carburante per jet. Le prospettive farebbero invidia a qualsiasi azienda: sul mercato, il gas costa intorno a 4 dollari e mezzo. Il che, a parità di contenuto energetico e di prezzo, equivarrebbe a un barile di petrolio da 25 dollari. Però, sul mercato, il prezzo del petrolio naviga intorno ai 100 dollari. Convertire i gas in liquidi è di certo un bel business.

Ma il fatto curioso è che il gas costa poco proprio grazie all’avvento dello shale gas, l’ultima frontiera – per non dire l’ultima moda – dell’industria energetica mondiale. È il gas che si ricava dagli scisti, depositi di roccia sedimentaria che erano destinati a restare intonsi, fin quando non è stata inventata la tecnologia della fratturazione idraulica, meglio nota come fracking: pompando sottoterra acqua a alta pressione, mischiata con sabbia e sostanze chimiche diverse, gli scisti si rompono e rilasciano lentamente il gas naturale che tenevano imprigionato.

Da un giorno all’altro, gli Stati Uniti sono diventati l’Arabia Saudita del gas. Sotto gran parte degli Stati di New York, Pennsylvania, Ohio, Maryland, Virginia e West Virginia si estende il deposito Marcellus, il più grande del mondo. Lo shale gas è già sfruttato anche in Texas e in Louisiana, ma in Pennsylvania, dove 151 anni fa fu scoperto il primo pozzo di petrolio della storia, oggi si respira l’aria di una nuova corsa all’oro. Ecco perché quest’aggiuntiva (e improvvisa) disponibilità di metano, ha depresso negli ultimi due anni il prezzo dei contratti future sul gas naturale.

Ma non ci sono solo gli Stati Uniti. La storia geologica della Polonia è simile a quella del Bacino di Marcellus: milioni di anni fa, c’era il mare. Un mare bassissimo, perfetto per sedimentare – lungo un tempo infinito – carbonio e idrogeno di origine biologica e "cucinarli" sotto forma di idrocarburi. Secondo un recente studio americano, la Polonia ha una dotazione di 5.300 miliardi di metri cubi di shale gas, quanto basterebbe per far girare l’ex paese comunista per tre secoli.

Anche la Bulgaria vuole diventare un po’ più indipendente sotto il profilo energetico (a fine maggio ha firmato con la Chevron la sua prima concessione per lo shale gas), sfruttando le proprie riserve di «gas non convenzionale». Così, come dalle sabbie petrolifere del Canada si ricava il cosiddetto petrolio non convenzionale (perché non sgorga dal terreno, ma bisogna separarlo dalla terra), anche il mercato del gas ha adottato gli effetti speciali, pur di fronteggiare la disperata ricerca di nuovi idrocarburi. Se poi gli idrocarburi possono transitare dallo stato gassoso a quello liquido, meglio ancora.

Ed ecco la cattiva notizia.

Pochi giorni fa, la Pennsylvania ha multato la Chesapeake Energy per un milione di dollari, dopo che aveva inquinato la falda acquifera di sedici famiglie. E l’opinione pubblica americana ora legge i reportage del New York Times sulle famiglie della Pennsylvania (molte più di sedici) che hanno il metano che esce dai rubinetti. E un ramo del Parlamento francese, prima ancora che qualcuno pensasse di cercare il gas sotto i suoli d’Oltralpe, ha appena approvato una legge per bandire il fracking, tout-court.

Ma le considerazioni ambientali sull’estrazione dello shale gas sono ben più complesse: c’è anche la variabile del riscaldamento climatico prodotto dall’anidride carbonica nell’atmosfera che le Nazioni Unite, seppur recalcitranti, dicono di voler contenere. E qui, ci sono pochi dubbi: producendo energia dal gas, invece che dal carbone, l’impatto sull’effetto-serra è minore. Peccato che, in un recente studio, Robert Horwath della Cornell University abbia rovesciato l’equazione: con la tecnologia del fracking, ci sono delle fuoriuscite di metano nell’atmosfera. Il quale, ha un potenziale-serra 25 volte superiore alla CO2. Quindi, a suo parere, il gas delle rocce non è molto più "sostenibile" del carbone.

Il segretario americano all’Energia, il premio Nobel per la fisica Steven Chu, ha istituito una commissione che, nel giro di qualche mese, dovrà dare indicazioni sulle procedure di sicurezza da adottare per il fracking. Lo stesso Chu, forse il ministro dell’energia più consapevole dei rischi connessi all’uso dei combustibili fossili che ci sia al mondo, deve fare buon visto a cattivo gioco: appena quattro anni fa, si parlava della necessità di costruire 44 nuovi terminali per l’Lgn, il gas naturale liquefatto che doveva arrivare via nave perché il fabbisogno aumentava e le risorse nazionali diminuivano. Oggi, grazie alle nuove tecnologie per estrarre lo shale gas, l’America ha trovato una cornucopia di energia. E, come al solito, di contraddizioni.