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 2011  giugno 06 Lunedì calendario

LA FRENATA (GOVERNATA) DELLA CINA

Durante la crisi anche l’economia cinese è cresciuta meno che negli anni precedenti: «solo» del 10%l’anno tra il 2008 e il 2010, cioè tre punti in meno che nel fortunato biennio 2006/2007. In ogni caso, la crescita registrata dalle statistiche ufficiali del governo nel 2006/2010 è stata superiore di quattro punti percentuali rispetto agli obiettivi stabiliti per il periodo nell’undicesimo piano quinquennale. Il che succede puntualmente dal 1990. Non c’è dubbio che l’economia cinese sia da anni la star incontrastata dei confronti internazionali in materia di tassi di crescita. Già da qualche mese però si parla di rallentamento in arrivo. Lo aveva fatto in marzo Gavyn Davies sul Financial Times. Di recente anche Jim O’Neill, il capo economista di Goldman Sachs che inventò il fortunato acronimo Bric per definire in modo compatto le grandi economie emergenti (Brasile, Russia, India e, appunto, Cina) ha espresso i suoi dubbi sulla sostenibilità della crescita cinese. Il primo degli indicatori da tenere sotto occhio secondo gli osservatori riguarda la liquidità in circolazione nell’economia di Pechino. Sia che la si misuri guardando alla quantità di moneta in senso stretto o alla quantità di prestiti in essere, la crescita della liquidità è in netto rallentamento fin dalla seconda metà del 2010. A partire da novembre 2010, la stretta monetaria da parte della Banca centrale si è intensificata con aumenti regolari a cadenza mensile del coefficiente di riserva obbligatoria, associati ad aumenti a cadenza più irregolare dei tassi. La svolta della politica monetaria in senso più restrittivo è la risposta alle tensioni sui mercati delle materie prime che spingono verso l’alto i prezzi dei prodotti industriali, l’inflazione al consumo e la crescita salariale.
E così le preoccupazioni per l’inflazione e per la crescita sostenibile ed equa hanno ormai sostituito l’importanza di soddisfare obiettivi quantitativi di crescita nelle dichiarazioni ufficiali del premier Wen Jiabao. Ci si chiede, dunque, se e quando la stretta monetaria farà rallentare la corsa cinese. In Occidente c’è una regola del pollice per calcolare dopo quanto tempo una stretta monetaria porta con sé un rallentamento del Pil: è la regola dei nove mesi. Tanto si ritiene che ci voglia perché una restrizione nelle condizioni monetarie si trasmetta al mercato del credito e da queste alle imprese. Se la regola del pollice che si adotta in Occidente valesse anche per Pechino, dovremmo aspettarci un rallentamento dell’economia cinese a cominciare dal secondo semestre 2011, dato che il pedale del freno è stato schiacciato con più decisione dalle autorità monetarie negli ultimi mesi del 2010. A questo risultato sembrano significativamente convergere da qualche mese le aspettative per il futuro degli imprenditori cinesi riassunte nel Purchasing Managers’Index (Pmi). Eppure il Pil continua a crescere come prima e così anche un altro indicatore reale come i consumi di energia elettrica. Se un certo rallentamento dell’economia cinese è probabilmente inevitabile, oltre che compatibile con gli obiettivi del dodicesimo piano quinquennale approvato nello scorso marzo dal governo, rimane da capire se quale sarà l’entità del rallentamento e se la sua natura sarà temporanea o permanente. Il tardivo rialzo dei tassi di Greenspan e Bernanke non ha impedito lo scoppio della bolla del mercato dei mutui e la crisi seguente in America. Una cosa è certa: se da molti anni il governo cinese si è dimostrato non pienamente efficace nel frenare il surriscaldamento dell’economia, almeno fino a questo momento ha però dimostrato un’eccezionale abilità di controllo nell’evitare che la crescita economica rallentasse al di sotto del passo desiderato. Persino durante la crisi. Questo dovrebbe farci concludere che chi predice disastri per l’economia cinese avrà prima o poi ragione, ma difficilmente farà fare soldi ai suoi clienti in Borsa: «shorting China» è per ora un esercizio perdente.