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 2011  giugno 06 Lunedì calendario

MAZZOLA

«Io ero solo un bambino, non ero Mazzola. Io non ero mio padre».
Adesso, tutto il tempo è come allungato sul divano, un tempo calmo e disteso. Ripensarci è non crederci. «Un attimo durato cinquant´anni». Alessandro Mazzola detto Sandro, oppure Sandrino, come a lungo lo chiamarono in riferimento, sempre, all´immane leggenda del padre Valentino, morto a Superga. «All´inizio è stato difficile, pensai quasi di dedicarmi al basket per non dover sempre patire il confronto con lui. Sotto canestro, almeno, nessuno in me cercava papà».
Mezzo secolo: sarà venerdì. Cadrà nel lago un´altra goccia di tempo. «Dieci giugno 1961, il mio debutto in A contro la Juve a Torino. L´Inter mandò la squadra dei ragazzi per protesta contro la Federcalcio che aveva imposto la ripetizione della gara, ma io quel sabato avevo tre interrogazioni decisive: matematica, economia politica, inglese: promosso o bocciato. Facevo quarta ragioneria, viaggiavo tra il 5 e il 6. La mamma disse: tu vai a scuola, non a Torino. Io piansi, parlai con Allodi, l´Inter mandò un taxi ad aspettarmi fuori dalla scuola. Presi 9 in matematica dopo avere copiato, mi arrangiai in economia anche se pensavo a Sivori, in inglese non venni più chiamato. Avevo una valigia di metallo e tre panini. In campo, quel pomeriggio, Boniperti mi parlò tanto di papà: sarebbe stata, quella, la sua ultima partita e la mia prima». Un gigante si avvicina a Sandrino nel ricordo: «John Charles, come un monumento che mi si accosta e io allungo la gamba, lo atterro, l´arbitro lascia correre, vado dal gallese e gli dico "mi scusi, era fallo", così Charles si arrabbia davvero e mi fa: "Ma cosa mi dai del lei? Siamo due giocatori, adesso!». Finì 9-1 per la Juve, e quell´uno lo segnò Mazzola, su rigore: «Palla da una parte, portiere dall´altra ed era Mattrel, un azzurro. Avevo paura, mi dissi che dovevo mostrargliela tutta e anche di più, per ingannarlo».
Il ricordo è un rimbalzo sghembo su un prato sempre verdissimo. «Rimettendo in ordine le mie carte, ho appena ritrovato le lettere che ci mandammo io e De Sisti, a quel tempo si scriveva, parlavamo di pallone, scuola, fidanzate. Ricordo quella volta che avevo già vinto lo scudetto e dovevo giocare contro la Fiorentina di Picchio, che rischiava la retrocessione. Ma anche la Lazio di mio fratello Ferruccio la rischiava. Contro i viola finì 2-2, non potevo mandare in B De Sisti. Ci andò Ferruccio».
Ora il baffo, elegantissimo e distante, aristocratico nel gesto, è in Messico. «Prima della gara contro i messicani, venni colpito dalla diarrea. Valcareggi mi chiese se me la sentivo di giocare almeno un tempo, nel secondo entrò Rivera, così cominciò la famosa staffetta. E non certo per scelta tecnica». Poi la partita del secolo e di tutte le galassie: Italia Germania quattro a tre. «Primo tempo 1-0, poi 3-3. In fondo, l´abbiamo vinta con quel gol di Boninsegna, anche se nessuno mai lo dice». E la finale contro Pelé: «Immenso, però Di Stefano era più forte, una volta lo vidi segnare nel fango, partendo dalla sua area, meglio di Maradona. Nell´intervallo della finale mi tolsi una scarpa, ero sicuro che sarebbe entrato Rivera, così Valcareggi si avvicinò e mi disse: "Lei cosa sta facendo? Decido io chi deve uscire". Ma a sette minuti dalla fine, rifiutai di tornare in panchina: sono nella merda e ci resto, dissi al citì. Così Gianni prese il posto di Bonimba».
Eccoli per sempre accanto, Mazzola e Rivera, figurine dentro un tempo bellissimo, anche se ora scende la nebbia. «Lui è stato tra i più grandi della nostra epoca. Sapeva fare tutto: gol, lanci, assist. Una mezz´ala classica, la più completa. Io ero più attaccante, la rete il mio primo pensiero. Invece Gianni guardava prima la situazione, lo sviluppo del gioco, e poi nel naso puntava la porta».
Quando era lì lì per smettere, Sandro Mazzola scrisse un libro: "La prima fetta di torta". «Sentivo di essere arrivato, avevo 33 anni e mi chiedevo: cosa ho fatto nella vita? Cercai la risposta dettando pagine al mio compagno Adelio Moro, in ritiro. Lui aveva studiato stenodattilo. La sera, quando era ora di spegnere la luce, non voleva mai smettere: mi piace, diceva, continua ancora».
Gli anni Sessanta («Irripetibili, inventammo pure il sindacato calciatori»), i Settanta ruggenti («Ci restai male quando arrivai secondo al Pallone d´Oro, dietro Cruyff»), il calcio così cambiato, quasi un amico perduto. «A parte Del Piero e Totti, dove sono finiti i numeri 10? Il Brasile, nella finale del 1970 ne aveva cinque, mai più vista una squadra così. Ora però abbiamo questo miracolo, questa benedizione, il Barcellona, teniamocelo caro». Anche se poi la parola per raccontare il presente è: «Confusione. Tecnica, tattica, morale».
Ci sarebbe ancora posto per un bambino. «Lo accompagnarono il papà e la mamma a un ritiro dell´Inter, in montagna, lo avevamo pensato per quelli che non potevano andare in vacanza al mare. Mi dissero: "Lo faccia giocare, è piccolo però è bravo". Quel bimbo si chiamava Beppe Signori».
Forse è l´ultima fetta di torta. Sandrino Mazzola, che sapore ha? «Amaro più che dolce. Come la marmellata di bucce d´arancia».