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 2011  giugno 06 Lunedì calendario

RICORDARE LA GRANDE GUERRA. MA COME È DIFFICILE PARLARNE

Nelle celebrazioni del 150 ° anniversario non vi è stato alcun cenno a una pagina di storia autenticamente indicativa dell’identità nazionale e dell’Unità d’Italia. È quella della guerra italiana del «15-18» , conclusiva dell’indipendenza e Unità d’Italia, coronatrice del sogno risorgimentale. Guerra povera di mezzi, armi e vestimenti, vissuta, sofferta e combattuta con abnegazione, onore e senso del dovere, in trincea e sulle pietraie del Carso, dai militari di ogni provenienza sociale, culturale e regionale. In questo mondo e in questa atmosfera, si sono sentiti e riconosciuti italiani nel comune sentire, nella fratellanza, nella solidarietà umana, soldati sostenuti spiritualmente e affettivamente dal popolo delle madri, delle mogli, dei figli. Sorgeva, forse inconsapevolmente, l’alba dell’autentico amor di Patria. Era necessario ignorare questa pagina? È stata una guerra, è vero, ma anche nella sua essenza, il momento principe dell’Unità nazionale: la corona al Milite ignoto di tutte le guerre, ma precipuamente di quella del «15-18» ; nonché le note della «canzone del Piave» , ascoltate con emozione e commozione dagli italiani di oggi, non sono la conferma di questa verità, non rivelata?
Max Giacomini
M. giacomini@rai. it

Caro Giacomini,
Credo che all’origine di questa «distrazione» vi siano una ragione specificamente italiana e una più generalmente occidentale. In Italia la guerra fu voluta da un blocco minoritario attivo e impegnato, composto da nazionalisti, interventisti democratici, interessi dinastici e supinamente accettata da una maggioranza parlamentare che non volle o non poté opporsi. Il Paese superò la prova e dette, soprattutto dopo Caporetto, una buona dimostrazione di orgoglio, fierezza, solidarietà nazionale. Ma la vittoria ebbe l’effetto di accentuare le distanze fra il delirante nazionalismo dell’impresa di Fiume e la sciagurata «caccia ai reduci» messa in scena dalla sinistra massimalista. Il fascismo s’impadronì del nazionalismo e conquistò in tal modo il consenso degli italiani che non intendevano bruciare la vittoria nel crogiolo delle lotte domestiche. Ma la memoria della Grande guerra finì per essere contagiata dall’uso che il regime ne fece per più di vent’anni e venne ingiustamente screditata poi dalla sconfitta dell’Italia nella Seconda guerra mondiale. Sul piano europeo, intanto, la migliore storiografia ha analizzato e dissezionato la guerra sottoponendola a esami rigorosi che hanno messo in evidenza le follie dei governi alla vigilia del conflitto, i micidiali errori dei comandanti militari, la miopia dei vincitori, i disastri umani, l’ingiustizia dei trattati di pace. Non è facile parlare bene di una guerra che ha creato le condizioni per un nuovo conflitto mondiale, vent’anni dopo. Aggiungo per completezza, caro Giacomini, che anche la Seconda guerra mondiale, nonostante le celebrazioni degli scorsi anni dalle spiagge della Normandia alla Piazza Rossa, è ormai soggetta allo stesso trattamento. Massimo Longo Adorno, autore di un libro su un’altra guerra dimenticata (quella russo-finlandese del 1939-40) mi ha segnalato un saggio apparso recentemente nella «Sunday Book Review» del «New York Times» . Secondo l’autore, Adam Hirsh, qualche storico comincia a chiedersi se può davvero essere definita «democratica» una guerra che sconfisse il nazismo per consentire a Stalin di continuare a fare ai suoi sudditi e vassalli ciò che Hitler stava facendo agli ebrei e ai popoli dei Paesi occupati dalla Wehrmacht. Sono domande scomode a cui la sola risposta possibile è in molti casi, sul piano delle celebrazioni, il silenzio. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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