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 2011  giugno 04 Sabato calendario

Graziani, il generale che non capiva il deserto - In occasione del ventennale della morte di Mario Tobino (1910-1)la casa editrice Mon­dadori pubblica, negli Oscar, una nuova edizione de Il deserto della Libia (pagg

Graziani, il generale che non capiva il deserto - In occasione del ventennale della morte di Mario Tobino (1910-1)la casa editrice Mon­dadori pubblica, negli Oscar, una nuova edizione de Il deserto della Libia (pagg. 302, euro 9.50; introduzione di Laura Barile, nota al testo di Paola Italia e Giulia Fanfani) con in appendice il finora inedito Il libro della Libia di cui anticipiamo un brano. *** Prima di abbandonare il pe­riodo grazianesco è pru­dente un commento sulla quistione: non tutti i solda­ti e comandanti erano nel lumeg­giato stato mentale, v’era chi ave­va senno, vedeva chiaramente la bandiera marcia e avvertì come poteva. Ma gli altri, ripeto, erano una marea e solo i fatti che inelut­tabilmente dovevano accadere avrebbero potuto toglier loro le pazze illusioni, pulire il cervello, almeno per quello che è possibi­le, ché alcuni sono così ciechi che ormai occhi nuovi nessuno glieli può rifare. Cominciò dunque la guerra nel deserto, guerra quant’altri mai dolorosa e triste, dove non c’era nulla che allietasse e solo i soldati avrebbero potuto trovare un con­forto se si fossero tra loro voluti bene, ma tra loro si volevano ma­­le, cioè non si stimavano, e in più la natura dove vivevano era osti­lissima. Il ciarpame, le trombette, il pa­rolaio cominciò dunque a essere ucciso come venne in contatto con il deserto, e ciascuno comin­ciò ad avere paura, se non che, pri­ma che il nemico iniziasse la bat­taglia, quando si trovavano insie­me si rifacevano coraggio e na­scondevano quella paura, che il deserto gli aveva messa, con i pa­roloni e le stupidaggini, poiché nel deserto ci si può vivere tran­quillamente soltanto avendo i pensieri, avendo un mondo sicu­ro e amato dentro il cuore, e i sol­dati non avevano dentro di loro niente di sicuro o amato, aveva­no sopra di loro la sensualità, il desiderio di godere, e con questo unico desiderio è impossibile vin­cere le guerre. Il generale Grazia­ni, che quando incominciò ad an­dare male, i soldati sussurravano che non amava star vicino alle bombe, era un generale che non doveva amare non soltanto i pro­­iettili, ma neppure la critica, e mai più i ragionamenti e le disqui­sizioni di guerra. Egli, dopo la ca­tastrofe, si difese con una assai bella lettera indirizzata al «duce» dove in sostanza a costui diceva che la colpa del disastro erano proprio i dissennati ordini che lo stesso duce aveva dato. Io non so chi sia stato il primo a scaricare il barile, io so che un generale è il padre dei soldati e deve fare il be­ne del paese, e solo avere questo scopo. Io so, poiché lo stesso Gra­ziani lo ha dichiarato per iscritto, che egli generale, poche ore pri­ma dell’attacco nemico, stava preparando l’invasionedell’Egit­to e per questo aveva ammassato tutte le sue forze alla frontiera e persino le vettovaglie aveva por­tato in linea, e si comportò cioè, dette ordini, come la vittoria fos­se sicura, il nemico uno sciocco e disarmato. Ora Graziani non aveva capito la guerra di movimento, non so­lo, non sapeva che fosse il deser­to, e sembrava caparbiamente che non volesse assolutamente guardarlo come era, e che gli in­glesi non erano gli arabi del 1911, che le armi noi non l’avevamo, che innanzitutto non v’erano le ragioni, noi incivili, di vincere dei civili, e che era supremamente sciocco dirsi: – noi siamo destina­ti alla vittoria e la vittoria verrà da noi – e che infilare dentro le neb­biose teste degli ufficiali e soldati che noi si era un esercito glorioso e il nostro compito era quello di attaccare e il nemico si sarebbe frantumato solo perché noi si ini­ziava il combattimento, questa opinione era certo sconsiderata. E non è che Graziani e i soldati non sapessero la forza e l’astuzia del nemico perché prima dell’at­tacco decisivo del nemico vi era­no stati numerosissimi piccoli scontri dove noi eravamo stati sempre giocati molto per le armi che essi avevano e cioè autoblin­de ed armi automatiche, armi a noi ignote, ma assai anche per tut­ta la faragine di luoghi retorici e comuni che invece, di distrugge­re ora che si era davanti al nemi­co e in ogni modo lo si doveva fronteggiare con i mezzi che si aveva in attesa di averne di miglio­ri, si favorivano questi balordi drappi e da Roma e dallo stesso Graziani, il quale avrebbe potuto fare qualsiasi cosa ma non reagi­re con ogni mezzo a quelle che erano le cause predominanti del­la obbligatoria vergogno­sa sconfitta. E invece por­tò perfino le vettovaglie in prima linea consideran­do che era bene averle già spostate in avanti dato che sicuramente quella che era oggi la prima li­nea, a causa della sua fol­gorante avanzata di do­mani, sarebbe venuta una lontana e comoda re­troguardia. È da aggiunge­re che moltissime delle sue truppe erano a piedi, compresi i suoi libici i qua­li perfino li aveva frammi­schiati a reparti italiani e accarezzando i libici (da lui considerati invincibi­­li), trattandoli con mag­giore riguardo creò avvili­mento e sdegno negli ita­liani, sciocca superbia nei libici. E davvero costui ge­nerale non aveva nozioni di guerra, sebbene nel tempo che precedette l’attacco nemico, se avesse avuto un po’ di attenzio­ne, avrebbe perfino avuto tempo ad apprenderle, e proprio dagli inglesi, i quali partendo da sicu­re, difese basi lungo la costa (e an­che noi queste avremmo potuto averle e forse migliori degli ingle­si, e valga ad esempio la chiave, cioè Tobruk) facevano con le loro autoblinde arabeschi nel deserto e ritornavano alla base, e non te­nevano schierato proprio nello spietato deserto un esercito ma vi tenevano delle schiere leggere quali avvertitori dei movimenti del nemico. Pubblicato per gentile concessione della Fondazione Mario Tobino e di Arnoldo Mondadori editore