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 2011  giugno 04 Sabato calendario

IL DECLINO DELL’UOMO DI FERRO

«Governare lo Yemen è come danzare a piedi nudi su un nido di vipere», disse Alì Abdullah Saleh senza l’ombra di un sorriso facendomi accomodare in uno dei saloni del palazzo presidenziale, l’antica fortezza ottomana affacciata sulle 14mila torri di Sana’a, un’architettura affascinante che ha resistito alle ingiurie della modernità ma non alle granate piovute ieri dalle milizie dell’opposizione. Era il dicembre del 2009 e mi chiedevo cosa pensassero gli yemeniti - il 70% sotto i 25 anni e il 40% sotto la soglia di povertà - di essere governati da lui: soltanto Gheddafi nel mondo arabo era al potere da più lungo tempo. Ma a differenza del Qaid libico e di altri raìs, Saleh, che si vantava di essere amico di Saddam Hussein, non aveva mai avuto la fama di autocrate sanguinario.

Davanti avevo un settantenne di statura modesta e ingrigito che non aveva neppure il vezzo come l’egiziano Mubarak di tingersi la capigliatura in maniera improbabile. Saleh non ha niente di pittoresco o affascinante, nel bene e nel male, e non vuole apparire come un leader facondo che vuole colpire l’interlocutore. Persino l’abbigliamento all’occidentale, abbandonate da tempo le candide divise da Feldmaresciallo, carica a cui tiene moltissimo, è quello di un qualunque manager di medio livello.

Ma niente è più ingannevole delle apparenze. Saleh è un uomo dai nervi d’acciaio che ha tenuto in pugno prima lo Yemen del Nord poi l’intero Paese riunificato. La sua storia è quello dei due volti di questo Paese. È nato in un villaggio in mano alla tribù dei Sanhan che fa parte di una confederazione più vasta e potente, quella degli Hashid. Dopo le scuole elementari è entrato giovanissimo nell’esercito dove ha fatto una rapida carriera che lo ha portato ai vertici con un colpo di Stato. Da allora non ha più mollato il potere: per trent’anni si è circondato di membri della sua tribù e della famiglia, così come aveva fatto Saddam con il clan di Tikrit. E questa è già una parte, forse quella fondamentale, della storia: gli Hashid e le altre tribù ostili vogliono prendersi la loro rivincita sull’onda della primavera araba.

Il presidente è considerato dai sostenitori una sorta di padre della patria, salito al potere nello Yemen del Nord nel 1978 e riconfermato nel 1990 dopo la riunificazione con il Sud, quando fu sciolta la repubblica marxista nata dalla fine del protettorato britannico di Aden nel ’67, il porto affacciato sullo stretto di Bab el Mandeb dove passa il 40% del petrolio mondiale.

Il Feldmaresciallo è il capo di due Stati paralleli. Quello formale è una repubblica, l’unica del Golfo con parvenze democratiche, sorta dalla rivoluzione nel 1962 contro l’imamato zaydita, una monarchia millenaria appartenente a un ramo dello sciismo. Lo stato reale si è retto invece su una rete di alleanze tra il presidente - zaydita anche lui ma fortemente laico - le forze armate, gli sceicchi delle tribù e alcune famiglie importanti. Nord e Sud sono profondamente differenti: lo Yemen settentrionale è sciita e guerriero - viene chiamato il Paese delle armi - quello meridionale, sunnita e mercantile, è definito il Paese del pane.

L’abilità di Saleh è stata di applicare il principio del divide et impera tra le componenti tribali. Ma per sopravvivere negli ultimi due anni ha dovuto combattere su tre fonti: la guerriglia sciita degli Huthi a Nord, i secessionisti del Sud e al Qaida, che nella caotica situazione yemenita sta trovando una base per rilanciarsi. Poi è arrivata la protesta della piazza e delle tribù e l’uomo di ferro ha giustificato la repressione con lo spettro della guerra civile. Per qualche decennio lo Yemen è stato anestetizzato dalla dittatura di Saleh e dal qat, l’erba anfetaminica che insieme a venti milioni di kalashnikov non abbandona mai la popolazione maschile di questo Paese: ora l’effetto anestetico è finito e cominciano i dolori.