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 2011  giugno 04 Sabato calendario

L’AMERICA HA IL MAL DI DEBITO

Molti economisti di Wall Street prevedevano a S. Silvestro che l’economia americana avrebbe fatto meraviglie nel 2011. Un’Europa bisognosa di conforto americano vi ha in genere creduto. La sintesi più utile la forniva però Stephen Roach, già credibile e - non facile - onesto guru di una grande banca d’investimento (Morgan Stanley), e oggi docente a Yale. L’economia americana, diceva Roach, è come un aereo che non riesce a prendere velocità, rischia quindi sempre lo stallo, la perdita di quota, appesantito da troppi debiti, interni e con l’estero. Il debito totale non è diminuito in questi due anni, anzi. Si è solo spostato dal privato al pubblico. E, per 2mila miliardi di dollari, quasi quanto l’intero Pil italiano, ha gonfiato il portafoglio della Federal reserve, la banca centrale.

La sfilza di cattive notizie di questi giorni, su occupazione, ordini all’industria, prezzi delle case e altro ancora, è una presa d’atto della realtà. Ad aprile si era detto che l’occupazione aveva «svoltato l’angolo». Si dimenticava che il tasso di occupazione, il numero cioè di occupati sull’intera popolazione, è sceso durante la Grande Recessione del dicembre 2007-giugno 2009 dal 63 al 58,5% e su quest’ultimo palo è rimasto inchiodato a tutt’oggi, a due anni dalla ripresa. E così si dimenticava che da molti mesi ormai il 25% degli uomini fra i 25 e i 54 anni, l’età migliore per un lavoratore, non riesce ad avere un lavoro full time che, si presume più ancora delle donne, nella quasi totalità desidererebbe avere.
Il ritorno a maggio sopra il 9% di disoccupati (ufficiali) conferma che la ripresa è fragile. Fra le tante cause di questa debolezza, una va citata: il continuo peggioramento del mercato immobiliare. Così come, fra le conseguenze, due non possono essere dimenticate. Una economica, sulla tenuta del bilancio pubblico. L’altra politica, sulle prospettive della prossima campagna elettorale che fra sette mesi entra nel pieno per le presidenziali del 2012.
Il mercato della casa sta vivendo l’anno peggiore, a due anni dalla fine della recessione va malissimo, i prezzi delle case hanno accelerato la discesa e perso secondo l’indice Case-Shiller il 4,2 % nel primo trimestre e si avviano a perdere a fine anno attorno al 40% rispetto ai picchi, irrealistici, di fine 2006. Una ripresa potrebbe esserci solo nel 2016 e a quel punto tra 6 milioni e sei milioni e mezzo di famiglie avranno subìto il pignoramento. Più del 25% dei 50 milioni di mutuatari sono underwater, hanno cioè la casa che vale meno del mutuo, per uno squilibrio complessivo di circa 800 miliardi. Con un’edilizia così è difficile avere una ripresa robusta. Lo stesso messaggio viene dalle difficoltà di base delle famiglie, con i food stamps, i buoni viveri per i poveri, che oggi vengono richiesti da un americano su 7, da 44,2 milioni contro 33 milioni nel 2009.
La crisi ha dato un brutto colpo ai conti pubblici americani, come accaduto anche in Europa. Il debito federale è aumentato di 3.100 miliardi nel 2009-2010 e salirà di altri 1.500 nel 2011, anno record del deficit. La questione di fondo del debito pubblico americano, ormai al 120% del Pil anche prendendo le sole cifre ufficiali (federale più Stati ed enti locali) e che escludono indebitamente le gigantesche finanziarie pubbliche Fannie e Freddie, non è nel tiro alla fune sui limiti statutari tra repubblicani e democratici, ma è legata ai mercati: fino a che punto vorranno continuare a sottoscriverlo, se non a rendimenti nettamente più alti?
Un vero default degli Stati Uniti, ipotesi che qualche bello spirito ogni tanto agita, è fuori discussione, per un paese ricchissimo, dalle potenzialità ancora enormi, e oltretutto a bassa tassazione. Cosa che lascia margini. Ma una crisi nella copertura del debito americano potrebbe esserci ad ogni momento, quando a partire dal prossimo luglio la Federal reserve non acquisterà più, come ha fatto da gennaio con il QE2, il secondo quantitative easing, praticamente tutte le nuove emissioni di debito federale, in media circa cinque miliardi al giorno. Sei, dice David Stockman, l’ex ministro del Bilancio di Reagan, convinto che si arriverà a giornate difficili, a una «major thundering conflagration» sui mercati del debito sovrano americano. E della stessa opinione è Peter Orszag, che è stato al Bilancio nei primi due anni di Obama. Una vera ripresa avrebbe dissipato più di una nube.
Quanto alle presidenziali, la debole crescita rende la rielezione di Obama più complicata. I repubblicani potrebbero fargli il regalo di uno sfidante così appiattito su Wall Street, che è impopolare, da far dimenticare quanto lo stesso Obama sia stato e sia vicino ai grandi banchieri. Ma essere rieletto con una disoccupazione oltre l’8 per cento, un debito pubblico al galoppo, dopo avere promesso che aiutare le grandi banche era il passo necessario per aiutare l’economia, e dopo avere detto che proteggere Wall Street è costato poco, richiederà certamente maestria e fortuna.