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 2011  giugno 04 Sabato calendario

E’ già tutto fissato. Deve partire per l’Italia, dirigere la Callas alla Scala nella Medea di Cherubini

E’ già tutto fissato. Deve partire per l’Italia, dirigere la Callas alla Scala nella Medea di Cherubini. Però, in quella estate del 1953, il Dipartimento di Stato gli nega il passaporto. Niente Italia, niente Europa, carriera stroncata. Per Leonard Bernstein inizia «una orrenda e umiliante esperienza». In una deposizione scritta rinnega le proprie convinzioni, smentisce di avere appoggiato idee che invece gli appartengono. Per difendersi, si rivolge a un avvocato che lui stesso definisce «un vecchio cacciatore di comunisti», si dichiara mortificato di «essere fonte di potenziale imbarazzo per il governo Usa». E aggiunge: «In quanto ebreo, sono attivo nella promozione di Israele come stato libero dalla dominazione sovietica e sono per forza di cose nemico del comunismo. Confermo la fedeltà agli Usa». Il passaporto arriva. Leonard Bernstein - vita politica di un musicista americano , scritto da Barry Seldes, docente di Scienze Politiche alla Rider University del New Jersey, è un libro appassionante. Uscito negli Usa nel 2009, ora pubblicato in Italia dalla EDT, nella lineare traduzione di Francesca Cosi, è costruito in gran parte sulla base dei fascicoli che l’Fbi ha raccolto negli anni a carico del compositore, direttore, pianista, saggista, autore di ineguagliati programmi televisivi di divulgazione, in una parola della personalità musicale di maggior spicco del 900 americano. Nel 1994, quattro anni dopo la morte di Bernstein, la Southern California American Civil Liberties Union, si appella al Freedom of Information Act (Legge per la libertà di informazione) e ottiene in copia l’intera documentazione, messa poi a disposizione di Seldes. Nato nel 1918 da genitori ucraini ed ebrei, socialista, sposato con figli, anche omosessuale, il musicista diventa oggetto di speciale attenzione da quando ha venti anni e appoggia i repubblicani durante la guerra civile spagnola. Partecipa a manifestazioni, concerti e campagne di raccolta fondi a favore degli esuli, tra cui non mancano esponenti comunisti. Negli anni del maccartismo, basta poco per entrare nella «lista nera», sorte che Bernstein condivide con altri eminenti artisti e intellettuali statunitensi. Si schiera con Hans Eisler, il compositore tedesco collaboratore di Brecht, emigrato negli States; difende gli Hollywood Ten, gli sceneggiatori che rifiutano di testimoniare davanti al Comitato per le attività antiamericane. Intanto, la sua carriera decolla. E le autorità vivono un dilemma: come contrastare l’uomo politico, senza reciderne il genio musicale e sfruttando le rare capacità di ambasciatore culturale degli Usa nel mondo? Quando, nel 1959, il presidente Eisenhower inaugura il Lincoln Center di New York, stringe la mano al musicista al quale, sei anni prima, ha vietato di eseguire il «Lincoln Portrait» di Copland, considerato artista di sinistra. Gli assassinii dei due fratelli Kennedy - per i funerali di Robert, Bernstein dirige l’Adagietto della Quinta Sinfonia di Mahler - e di Martin Luther King; la sconfitta del senatore pacifista Mc Carthy alle primarie del partito democratico, vinte da Hubert Humphrey: ma presidente diventerà Richard Nixon; l’«escalation» della guerra nel Vietnam. Tutti episodi, vissuti come sconfitte, che allontanano Bernstein dalla vita politica. Numerosi erano stati i contatti anche con il movimento delle Pantere Nere, di cui non approva la scelta a favore della violenza urbana e della costituzione di gruppi armati. Il New York Times castiga in un editoriale la sua «elegante freqentazione dei bassifondi in compagnia delle Pantere Nere, beniamini idealizzati dell’élite politico-culturale». Gli viene in aiuto, con una lettera aperta, Coretta King, vedova di Martin Luther: sostenere il diritto alla libertà di espressione dei Black Panthers non significa condividere il loro programma. Nel 1988 titola così un intervento per la pagina delle «Opinioni» del NYT: «Sono un liberale, orgoglioso di esserlo, ma sto parlando a una società americana che ha perso la propria carica progressista, che ha perso fiducia». Persegue ancora un impegno: le ricerche sull’Olocausto in Europa, in vista di una nuova opera, che non vedrà la luce. Queste convinzioni politiche e civili, quanto hanno influito sulla sua attività artistica? «Solo dopo Auschwitz, le jungle bruciate del Vietnam, l’omicidio di Dallas, l’arroganza del Sud-Africa, l’insensata corsa agli armanenti... possiamo finalmente ascoltare la musica di Mahler e capire che aveva predetto tutto», scrive nel 1982. E il suo Mahler tragico ed esplosivo di sonorità, resta, ancora oggi, travolgente e disperato.