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 2011  giugno 04 Sabato calendario

FLAVIA AMABILE

Circa 7mila persone vengono infettate ogni giorno nel mondo dall’Aids e circa la metà dei 34 milioni di persone affette da Hiv non sanno di averlo. Lo rivela un Rapporto pubblicato dall’Onu, a 30 anni dalla scoperta della malattia e alla vigilia di un vertice mondiale che si terrà la settimana prossima a New York.

Il problema esiste ed è sempre più diffuso ma per la prima volta in 10 anni i fondi per finanziare le ricerche sono diminuiti: la strada verso nuove terapie è più difficile ora. Secondo l’Unaids, per consolidare i successi degli ultimi anni nella lotta contro il virus, infatti, servono più soldi, meno sprechi e programmi di ricerca all’avanguardia.

Il Rapporto sottolinea come - malgrado i progressi spettacolari realizzati da quando epidemiologi statunitensi, in uno studio pubblicato il 5 giugno 1981, descrissero il caso di cinque giovani omosessuali il cui sistema immunitario era stato distrutto - circa 34 milioni di persone vivano con l’Hiv alla fine del 2010 e quasi 30 milioni di persone siano morte per sindrome da immunodeficienza acquisita negli ultimi tre decenni.

«E le risorse internazionali necessarie a sostenere questi progressi sono diminuite per la prima volta in 10 anni, nonostante l’enorme lavoro ancora da fare», sottolinea nel Rapporto il Segretario Generale, Ban Ki-moon. «Alla fine del 2010 6,6 milioni di persone in Paesi a basso e medio reddito hanno avuto accesso alle cure - ha detto -. Questo ha significato un aumento di spesa di 1,4 milioni di euro sul 2009, e un aumento di 22 volte rispetto al 2001».

In Italia grazie ai farmaci e alla prevenzione, la diffusione dell’Hiv ha subito negli anni un drastico ridimensionamento, ma il virus si è come creato un «piccolo regno» fondato principalmente sulla bassa percezione del rischio delle persone.

Quindi, sebbene dalla metà degli Anni 90 l’incidenza della malattia sia diminuita, ci troviamo oggi in una fase di stallo con 3-4 mila nuove infezioni annue, al di sotto delle quali è difficile scendere. E’ il bilancio di Gianni Rezza, del dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità di Roma.

A livello mondiale, ogni giorno, 2.500 giovani vengono contagiati dal virus. La diffusione è leggermente diminuita tra i giovani in genere, le giovani donne e le ragazze adolescenti si trovano di fronte a un rischio particolarmente elevato di infezione, a causa sia della loro vulnerabilità a livello biologico sia della disuguaglianza e dell’esclusione che patiscono a livello sociale.

Secondo il rapporto, nel 2009 i giovani dai 15 ai 24 anni incidevano per il 41% nei nuovi contagi tra gli adulti sopra i 15 anni. Si stima che, in tutto il mondo, 5 milioni (da 4,3 milioni a 5,9 milioni) di giovani in quel gruppo di età fossero sieropositivi nel 2009. Nel gruppo di età compresa tra i 10 e i 19 anni, nuove stime parlano di 2 milioni (da 1,8 milioni a 2,4 milioni) di adolescenti sieropositivi. Questi adolescenti vivono per la maggior parte nell’Africa sub-sahariana e sono perlopiù di sesso femminile e inconsapevoli della loro condizione di sieropositività. A livello globale le giovani donne costituiscono più del 60% dei giovani che convivono con l’Hiv. Nell’Africa sub-sahariana la percentuale sale al 72%.

ANTONIO SCURATI
Ci sono date che, sebbene rimangano in principio ignorate, segnano una controstoria segreta dell’umanità. Il 5 giugno ’81 è una di quelle. Quel giorno il centro per la prevenzione delle malattie degli Usa identificò un’epidemia di pneumocistosi polmonare in 5 pazienti gay di Los Angeles.
Era l’inizio dell’epidemia dell’AIDS. Ma era anche l’inizio degli anni ’80, il più lungo e intenso periodo di finta allegria dissipatrice che la storia dell’Occidente contemporaneo ricordi. Un decennio lungo trent’anni e durato fino a oggi. Anzi, fino a ieri. Trent’anni di fasulla e perfino lugubre joie de vivre sottilmente venati da un corrosivo presentimento luttuoso.

Quel primo campanello d’allarme rimase a lungo inascoltato. Soltanto nel 1984 ci si renderà conto che un agente infettivo è il responsabile del diffondersi di una nuova terribile malattia, soltanto nel 1986 sarà pubblicato il primo report statunitense sull’AIDS che dichiarerà la necessità di dare informazioni sul sesso, soltanto nel 1987 l’Assemblea mondiale della Sanità approverà una prima strategia globale per fronteggiare l’epidemia. Nel frattempo, mentre l’epidemia dilaga, derubricata nell’agenda mediatica come flagello circoscritto alla comunità gay (non dimentichiamo che in un primo tempo venne definita «immunodeficienza gay-correlata»), là fuori, nella società occidentale che si autorappresenta come ricca, sana, festosa, libera e gaudente, il party sfrenato continua fino alle prime luci dell’alba. Buttati dietro le spalle gli anni ’70 degli ultimi conflitti sociali manifesti e delle ultime dure lotte politiche, si predica ovunque euforicamente il nuovo verbo della società dei consumi, il cui hard core culturale e commerciale sta proprio, non a caso, nello scatenamento dei consumi sessuali. Ogni merce, anche la meno eccitante, viene sapientemente investita da un flusso di pulsioni libidinali ad opera di una legione di pubblicitari. La «liberazione sessuale», massima conquista dei movimenti di contestazione dei decenni precedenti, viene pervertita e irradiata sull’intero spettro delle merci. L’imperativo è uno solo: consumare, spandere, godere. Tre verbi che stanno chiaramente su di un continuum temporale e semantico con l’atto ed il concetto di «scopare».

Per le donne e gli uomini della mia generazione, nati tra la fine dei ’60 e il principio dei ’70, l’AIDS fu una prima apocalittica rivelazione riguardo alla fatuità e falsità dell’ideologia edonista profusa prima dai gruppi di potere e poi dai ceti di governo proprio a cominciare dagli anni ’80. La sperimentammo sulla nostra pelle quella menzogna anzi - è proprio il caso di dirlo - nella nostra carne. Ci affacciammo, infatti, all’età biologica del godimento sessuale proprio quando l’agghiacciante consapevolezza riguardante il diffondersi della malattia proclamava che la festa era finita (sebbene alcuni uomini degli anni ’80 si siano ostinati a negarlo fino a ieri, anzi, fino a oggi). Raggiunti i sedici anni, quando, carichi di ormoni e di fantasie sessuali alimentate dalla dilagante nudità dei corpi, ci sentimmo pronti a buttarci nell’orgia scatenata dai nostri fratelli maggiori che erano passati dalle ammucchiate fricchettone alle agenzie pubblicitarie, ci dissero che l’orgia era un brodo di cultura d’infezione. Non avremmo addentato il frutto proibito, e non per timore del peccato ma perché era un frutto avvelenato.

Per noi occidentali, l’AIDS infettava direttamente il cuore della nostra mitologia tardo-moderna. Era una piaga tipica della società dei consumi, strettamente correlata agli «stili di vita», recentemente elevati a suprema ideologia libertaria (l’AIDS fu la prima malattia infettiva scoperta come tale con solo metodo matematico statistico, cioè indagandone l’incidenza in gruppi sociali connotati dalle medesime abitudini), alla gioia vacanziera (il turismo sessuale ad Haiti), propensa a falcidiare gli idoli dello star system cinematografico (Rock Hudson), musicale (Freddie Mercury) e intellettuale (Michel Foucault). Se ne ebbe l’apice simbolico quando, pochi mesi prima di morire, Rock Hudson, ospite del serial Falcon Crest - emblema di quel culto fatuo della nuova, facile ricchezza - baciò sulla bocca Linda Evans per ragioni di copione, gettando così nel panico la troupe e l’intera produzione.

Il linguaggio, come sempre, veicolò il contagio nell’immaginario. Da quel momento in avanti l’amplesso amoroso venne definito «evento a rischio», il rischio fu contrastato con «campagne preventive» e il momento in cui quel rischio si esaltava, vale a dire l’atto sessuale, sottoposto all’ ipoteca di un «rapporto protetto». Quella che sarebbe dovuta finalmente essere l’espressione di un’esuberanza vitale, di una libertà conquistata, di una natura emancipata dalle proprie fatalità e costrizioni grazie alla tecnologia medico scientifica (l’invenzione della pillola), veniva ora subito sottoposta ad un protocollo di sicurezza fatto di guerre antivirali preventive e speculazioni sul rischio.

Ci è stato giustamente insegnato che trasformare una malattia in metafora è gesto spesso ideologicamente perverso ma è davvero difficile non notare come l’ossessione del «rapporto protetto» sia presto diventato un paradigma per l’Occidente in crisi dei decenni successivi. Dalla metà degli anni ’80 in avanti, quasi sempre, sia che si facesse l’amore sia che si facesse la guerra, non essendo affatto propensi a rinunciare al nostro sfrenato godimento, volendo anzi continuare a lussureggiare anche in futuro, a dispetto di tutto, illudendoci di essere ancora in grado di farlo, abbiamo creduto di poter continuare ad andare a letto con lo spirito del tempo dei fatui e sciagurati anni ’80 indossando un preservativo, una piccola guaina di lattice immunizzante che ci garantisse l’orgasmo preservandoci, però, dal contatto con la realtà del mondo, dell’altro e, soprattutto, di noi stessi.

ILARIA DE BERNARDIS
Dopo 30 anni il morbo del secolo fa ancora paura, ma oggi lo si può vincere. Potrà essere stoppato nei prossimi cinque anni con uno sforzo economico di 110 miliardi di dollari. L’annuncio arriva da Michel Sidibé, direttore esecutivo di Unaids, programma comune delle Nazioni Unite per la lotta all’Hiv/Aids, nonché Segretario generale aggiunto dell’Onu. Sidibé anticipa alcuni contenuti del discorso che terrà a New York in occasione del meeting (8-10 giugno) dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sul virus. In quell’occasione gli Stati membri adotteranno un documento che sarà il riferimento alla lotta all’Aids nei prossimi anni. Secondo Unaids, un investimento di 22 miliardi di dollari all’anno eviterebbe 12 milioni di nuovi malati e 7,4 milioni di morti.

Oggi, per la prima volta, si parla di un’inversione di rotta: quali sono i tempi presunti per debellare definitivamente l’Aids?

«Vogliamo innanzitutto far sì che i 34 milioni di persone contagiate dall’Hiv continuino a vivere a lungo, per questo occorre che abbiano a disposizione i trattamenti antivirali salvavita. Conviveremo con l’Aids a lungo. Quel che possiamo fare è evitare nuove infezioni tra i ragazzi prima del 2015. E’ già così nei Paesi ad alto reddito. Speriamo di poter raggiungere questo risultato in tutto il mondo entro i prossimi quattro anni».

La proposta di Unaids è di impiegare 110 miliardi in cinque anni per fermare il morbo. Risulta che l’Italia non abbia versato contributi al Fondo globale nel 2009 e nel 2010: come pensate di ottenere quella cifra se qualche Paese non rispetta gli impegni?

«È fondamentale che il Fondo globale sia completamente finanziato e che possa continuare ad aiutare gli ammalati di Aids. Per questo è auspicabile che tutti facciano quello che devono».

La diffusione del virus si sta spostando geograficamente. Per quale motivo oggi cresce di più nell’Est europeo e in Asia centrale?

«Non ci sono singole epidemie di Aids, ma ogni regione ha la propria specificità. E’ per questo che Unaids spinge su un approccio basato sul principio “conosci la tua epidemia e rispondi”. Ad esempio, nell’Est Europa la prevalenza è tra chi fa uso di droghe, mentre in Africa e in altre aree la diffusione è generalizzata. Quindi le risposte devono essere ritagliate su misura caso per caso. Abbiamo verificato che i programmi di riduzione del danno salvano vite e riducono il numero di nuovi infettati in maniera sensibile».

Nel mondo medico-farmacologico c’è chi sostiene che a breve verrà perfezionato un vaccino. Crede che sia una tappa davvero così prossima?

«Il vaccino è una necessità e un giorno ci sarà. Ma la strada è ancora lunga. Tuttavia nella ricerca sono già stati fatti progressi significativi. Nuove ricerche dimostrano che applicando i trattamenti antiretrovirali il virus non si trasmette più dai malati ai loro partner per via sessuale. Un punto di svolta che darà ancora più valore alla prevenzione. Dobbiamo puntare senza alcuna riserva ai trattamenti preventivi».

Di Aids non si parla quanto qualche anno fa, forse perché fa meno paura, ma è sempre pericoloso. Che cosa andrebbe fatto a livello di comunicazione istituzionale?

«Non c’è spazio per l’autocompiacimento. L’Hiv ha rialzato la testa nelle aree dove i programmi di prevenzione sono stati interrotti. L’educazione sessuale deve essere una materia scolastica. Dobbiamo dare ai giovani i mezzi per proteggersi da soli, dall’Hiv e dalle gravidanze indesiderate, e insegnare loro a prendersi cura della loro sessualità e fertilità: è un loro diritto».

Quanti sono i sieropositivi e i morti per Aids in Italia?

«Unaids dice che nel vostro Paese a fine 2009 c’erano circa 140 mila individui con l’Hiv, e 48mila erano donne. E si stima che siano morte per malattie correlate meno di un migliaio di persone».