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 2011  giugno 04 Sabato calendario

Con paradossale e feroce ironia, Giuliano Ferrara scrive: «Riuniamoci, stavolta in un teatro romano dal nome nobile, e sparliamo con affetto e nobiltà e sprezzatura del nostro idolo infranto: il Cav

Con paradossale e feroce ironia, Giuliano Ferrara scrive: «Riuniamoci, stavolta in un teatro romano dal nome nobile, e sparliamo con affetto e nobiltà e sprezzatura del nostro idolo infranto: il Cav.» . È un modo elegante di dire che della crisi del centrodestra Berlusconi non è la soluzione. È il problema. Che può risolvere lui solo. Ma, qui, la mia analisi diverge da quella dell’amico Giuliano. Per lui, Berlusconi deve tornare quello che è stato, l’uomo che ha rovesciato il tavolo, buttato all’aria le carte della politica tradizionale, instaurato un modo tutto personale e immaginifico di fare politica. Per me, Berlusconi può sperare di salvare il centrodestra solo a condizione di rinnegare, almeno in parte, ciò che lui stesso è stato e ancora è; paradosso per paradosso, a costo di riflettere criticamente sulle ragioni dei propri successi passati e della sconfitta recente. Che sono, poi, le stesse. Per prima cosa, i «liberi servi del berlusconismo» — come Ferrara definisce, con apparente ossimoro, se stesso e gli amici del Cavaliere — incomincino col suggerire a Berlusconi di non dire «io» , quando parla del Pdl, del governo, della riforma della Giustizia, del mondo, ma di dire «noi» . Titoli come «Berlusconi scuote il Pdl: Alfano segretario politico» hanno il doppio, e negativo, effetto di rappresentare il Popolo della libertà come una sorta di «affare privato di Berlusconi» e Alfano non come il nuovo segretario del partito, ma come il segretario di Berlusconi. Quando incomincerà a dire «noi» , invece di «io» , il Cavaliere mostrerà di avere finalmente capito che il centrodestra è una «società per azioni» , la cui ragione sociale non può essere il suo ipertrofico Ego, ma deve essere «una certa idea dell’Italia» ; una comunità, non il patrimonio personale di un monopolista. Non sarebbe il ritorno alla vecchia politica, ma il ripristino di regole del gioco tutte politiche; diverse da quelle della conduzione di una azienda. La riunione cui Ferrara chiama i «liberi servi del berlusconismo» rischia di assomigliare più a una seduta psicanalitica che a una riflessione politica. Anche i partiti della Prima repubblica— il Pli di Giovanni Malagodi, il Pri di Ugo La Malfa, per non parlare del Pci di Palmiro Togliatti e dei suoi successori — erano governati in modo autocratico dai loro segretari nazionali. Ma, a farne un coagulo di interessi e di principi, quei partiti avevano a loro fondamento «una certa idea dell’Italia» (e persino del mondo); che in Forza Italia, prima, e nel Popolo della libertà, poi, si è ridotta all’idea che il «capo» ha di se stesso. Poiché sono certo che Ferrara propenda per l’attributo «liberi» , i berluscones dicano, allora, francamente ciò che pensano del modo di essere leader del leader. Non è, né umanamente, né culturalmente, né politicamente facile nei confronti di un uomo intelligente, volitivo, di successo, convinto di esserlo più degli altri; poco incline a mettersi in discussione; tentato di non dare semplicemente retta a chi non è se stesso. Ma, almeno, ci provino.