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 2011  giugno 04 Sabato calendario

E se poi volessero tornare? E se invece non volessero neanche sentirne parlare? E se pensassero a qualcosa di più di un viaggio turistico? Se avessero intenzione di conoscere la loro famiglia, di incontrare la mamma biologica? Non c’è genitore adottivo che, davanti a un figlio che viene da lontano, non si sia posto queste domande

E se poi volessero tornare? E se invece non volessero neanche sentirne parlare? E se pensassero a qualcosa di più di un viaggio turistico? Se avessero intenzione di conoscere la loro famiglia, di incontrare la mamma biologica? Non c’è genitore adottivo che, davanti a un figlio che viene da lontano, non si sia posto queste domande. «Sono tornata in Indonesia con la mia famiglia, e con altri ragazzi con la mia stessa origine, un viaggio di gruppo. Non è stata una grande idea. Vedendo la mia faccia, per strada la gente mi parlava e io non capivo. Andavo nei ristoranti e il cibo non mi piaceva. I posti erano belli, ma io mi sentivo spaesata. Non sentivo di avere nulla in comune con il Paese nel quale sono nata. Ero una turista come tanti. Forse sarebbe stato meglio fare un viaggio più intimo, più privato» . Così racconta il suo viaggio, di parecchi anni fa, Aini, indonesiana, ora 35enne. «Ma adesso le cose sono cambiate — afferma Maria Teresa Vinci, direttore generale della Segreteria tecnica della Commissione adozioni internazionali—, le famiglie adottive vengono aiutate a mantenere vivo il legame dei ragazzi con la loro terra d’origine. Più risposte si danno a un bambino sul suo passato, sulla cultura, la storia e la lingua del suo Paese, più è probabile che si senta appagato» . Tutto diverso il «ritorno» di Kumari, 28 anni, cingalese, laurea in diritto internazionale, al lavoro al Cifa, l’ente attraverso il quale è stata adottata. «Compivo diciotto anni e i miei genitori mi hanno regalato un viaggio nello Sri Lanka. Naturalmente sono venuti con me. Ci siamo rivolti all’accompagnatore che ci aveva guidati durante il periodo dell’adozione. Sono stata adottata a sei anni e avevo dei ricordi del mio passato. Non solo del centro dove ero stata ospitata, ma del mio villaggio, della mia casa. Volevo essere certa che non fossero mie fantasie per riempire un vuoto. Era tutto vero. A distanza di tanto tempo, sono stata io a guidare il mio accompagnatore. Odori, colori, voci erano come li rammentavo. Sono arrivata anche davanti alla mia casa, ma non ho bussato. Nello Sri Lanka sono poi tornata come volontaria dopo lo tsunami del 2004. Ho lavorato in un orfanotrofio. È stato durissimo. Altri bambini, come ero io allora, altre donne disperate, come era la mia mamma, che li abbandonavano. Ed ero io quella bambina di 4-5 anni che piangeva e diceva: "Mangerò poco, ma fammi tornare con te". Ho pensato di andare a vedere come stava la mia famiglia, ma in fin dei conti non mi è sembrato giusto» . E i genitori di Kumari (la cui storia è raccontata in «Nati altrove» , vedi box), che cosa hanno pensato di questi viaggi? «Noi— racconta Pier Paolo Bosini— abbiamo sempre tenuto le porte aperte, abbiamo cercato di infondere in Kumari l’amore per il suo nuovo Paese rispettando l’affetto per quello vecchio. E se avesse voluto rivedere i suoi genitori o se vorrà cercarli in futuro noi certo non ci opporremo. È un’adulta, tocca a lei decidere» . Diversa ancora la storia di Shanti, 36 anni, indiana, arrivata in Italia tramite il Ciai, organizzazione al lavoro nel campo delle adozioni internazionali dal 1968. Nel suo caso è stata la famiglia originaria a cercare lei. «Ho ricevuto una lettera. Sei tra fratelli e sorelle che volevano parlarmi, è stato uno shock. Sono partita per conoscerli cinque anni fa, accompagnata da mia madre. Adesso scrivo ai miei fratelli, ci telefoniamo. E sulla mia storia ho scritto un libro» . («Ritorno alle origini» , ed. Ciai Sviluppo, in attesa di ristampa)» . Ma, tranne casi come questo, chi deve fare il primo passo verso il «passato» ? Risponde Elena Sormano, psicoterapeuta che con il Cifa ha seguito 30 anni di adozioni: «Se non ci sono state reticenze, se i figli non percepiscono nei genitori adottivi una chiusura, saranno i ragazzi a fare le loro proposte. Non cadiamo nell’errore opposto rispetto al «silenzio» , creando bisogni che non ci sono. Comunque molto spesso i ragazzi non cercano tanto i genitori, quanto i fratelli. Sono preoccupati della loro sorte» . «Bisogna distinguere bene — puntualizza Andrea Redaelli, responsabile dell’equipe psicosociale dell’Ai. Bi, storica organizzazione per le adozioni— tra la ricerca delle proprie origini, che si può fare per recuperare un volto, per conoscere il perché dell’abbandono, ma anche perché si sta fuggendo dalla famiglia adottiva» . Dal punto di vista numerico quanti sono i ragazzi che vogliono tornare e perché? «Studi internazionali ci dicono che lo fa un ragazzo adottivo su quattro. Non tanti, non pochi— commenta Marco Chistolini, psicoterapeuta, responsabile scientifico del Ciai —. Chi è stato adottato deve far pace con la sua storia, e non c’è miglior modo per aiutarlo che dirgli la verità. Non mitizzare la famiglia d’origine, né demonizzarla, in modo da non creare né impossibili speranze e né sentimenti esasperati di rabbia» .