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 2011  giugno 02 Giovedì calendario

PASOLINI

La “Rana”, condannato per omicidio volontario in concorso
con ignoti, ricostruisce la sua verità su quella notte del 1975 in cui
il poeta fu ucciso. Lascia però in sospeso una domanda: a
chi appartenesse il plantare ritrovato sulla spiaggia dove si consumò
il delitto. Preparandosi a rispondere nel libro che vuole pubblicare –

È il due novembre 1975 quando il cadavere di Pier Paolo Pasolini viene ritrovato abbandonato a Ostia. Ha la canottiera strappata e i pantaloni sbottonati. Il viso scavato del poeta è ridotto a una maschera di sangue. Il corpo presenta numerose fratture: Pasolini è stato picchiato, massacrato, e poi investito con un’auto.
Un ragazzo di 17 anni, Pino Pelosi, fermato dalla polizia alla guida dell’Alfa 2000 Gt della vittima, racconta di essere stato abbordato dallo scrittore e di aver rifiutato le sue avance. Confessa l’omicidio. Lo ritratta trent’anni dopo, nel 2005: l’inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini è ancora aperta. Pino Pelosi non era da solo quella notte, e questo è certo. Ma restano da chiarire moventi e mandanti. Perché il delitto di Pier Paolo Pasolini potrebbe essere un omicidio volontario e premeditato.
Un’ipotesi che apre l’incontro con Pino Pelosi.
L’ex “ragazzo di vita” adesso indossa una tuta da giardiniere fornita dalla “Cooperativa 29 giugno”, ha i capelli corti e uno zainetto nero in spalla.
«Fa caldo oggi a Roma, e io ho spazzato foglie fino a mo’ … sto sudato… e non cio’ niente da dirte…». Ma in quella cooperativa alle porte di Roma, in zona Pietralata, fra i detenuti che arrivano dal carcere di Rebibbia, c’è anche l’uomo che ha favorito questo appuntamento. Forse Pelosi gli deve un favore o forse per “l’arabo”, come lo chiama lui, c’è solo rispetto. Poco importa. Pino Pelosi si ferma, e si lascia intervistare. «M’hanno sempre pagato, tu mo’ vuoi pure sapere gratis».
Ci racconta di quella sera?
«Ci siamo visti al chiosco di Piazza dei Cinquecento, verso le 23 e qualcosa… lui è arrivato con la sua Alfa 2000 Gt metallizzata. Avevo fame. Mi ha portato al Biondo Tevere (un ristorante sulla via Ostiense, ndr). Paolo si prese solo una birra. Io spaghetti aglio olio e peperoncino».
Paolo? Lo ha sempre chiamato per nome, anche durante i primi interrogatori. Perché lei lo conosceva, lo aveva già visto…
«Sì, lo conoscevo».
E perché ha sempre detto il contrario?
«Avevo 17 anni, e avevo paura… mi avevano minacciato».
Era suo l’anello trovato nell’auto di Pasolini?
«E certo che era mio. Ne ho chiesto pure il dissequestro. Me lo devono ridà».
Non era di Johnny lo Zingaro?
«Ancora… ma quante volte lo devo ripetere. Basta! Giuseppe quella sera non ci stava».
Già. “Non ci stava”. Ma c’era un anello. Che Pelosi dichiarò, prima, di aver avuto da un’hostess statunitense. Poi dal suo amico Johnny, il pregiudicato Giuseppe Mastini, che negò qualsiasi complicità, ammettendo soltanto d’aver conosciuto Pelosi durante la detenzione in un carcere minorile di Casal del Marmo.
Da quell’istituto uscirono insieme durante l’estate 1975 e cominciarono a frequentare un circolo monarchico in via Donadoni. Alcuni testimoni dissero che erano amici inseparabili. Il nome di Johnny lo Zingaro compare anche nel rapporto di un carabiniere infiltrato nella malavita romana per seguire un’indagine sulla banda dei Marsigliesi, che in quel tempo cominciava a espandersi a Roma. Il militare infiltrato, il maresciallo Renzo Sansone, denunciò, nel 1976, le confidenze carpite ai due fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, morti di Aids negli anni 90. I due confessarono all’infiltrato di aver partecipato all’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Con loro, dissero, c’era anche Johnny. Un rapporto confermato, in parte, da Pino Pelosi nel 2005.
Anche lei ha fatto i nomi dei due fratelli Borsellino…
«Sì, ma Johnny non c’entra niente».
Però sul rapporto…
«Ma quante volte lo devo di’. Basta».
Un “basta” che quasi urla.
Dalla tasca della sua tuta da lavoro prende un sigaro cubano.
«Me lo ha regalato il mio parrucchiere. Stamattina sono andato a tagliare i capelli, c’avevo una testa “così”… come quando m’hanno arrestato».
Poi continua: «E guardami gli occhi, so’ normali. È stato un collega suo a di’ che avevo gli occhi come “’na rana”. Erano gonfi pecché m’avevano menato».
Chi l’aveva menata?
«I carabinieri… quando mi presero».
Ci racconta quella notte? Lei ha sempre detto di aver avuto un rapporto con Pasolini…
«Un rapporto orale. Da parte sua. Poi io so’ sceso dall’auto per andare a pisciare. Quando so’ arrivato vicino alla rete è sbucato uno, con la barba, e m’ha bloccato. Ho provato a ribellarmi ma mi ha dato un colpo in testa. In tre hanno tirato giù Paolo dall’auto. E lì hanno iniziato a massacrarlo. Lui si è divincolato. È riuscito a scappare, e loro dietro. Lo hanno ripreso e lo hanno picchiato ancora. Lo sentivo gridare “Aiuto … mamma”. Lo ha detto un paio di volte. “Aiuto”. Poi, non ho sentito più niente».
Dov’erano i tre che hanno preso e picchiato Pasolini?
«Sono arrivati in macchina».
Pasolini non si è difeso?
«Che poteva fare? Avevano catene, bastoni».
Ma Pasolini non era cintura nera di karate?
«Sì, ma davanti a ’na pistola...».
Quindi c’era anche una pistola?
«Avevano una pistola, sì».
Perché non raccontò subito la verità? Perché decise di confessare un delitto non suo?
«L’uomo che mi teneva disse che mi dovevo stare zitto: “Scordati tutto se no hai finito te e tutta la tua famiglia”».
Minacce per non parlare… non per confessare.
«Chi lo dice? Lo dici tu che non me l’hanno detto. Lo hanno fatto dopo».
Dopo quando?
«Ma che ne sai? Il carcere è un altro mondo. Là c’è n’altra vita. Avevo paura. Io ero un ragazzino».
Aveva paura, d’accordo, ma la confessione è arrivata subito, non dopo anni di carcere. Qualcuno l’ha pagata?
«No».
Si sarebbe addossato la responsabilità del delitto di Pier Paolo Pasolini, di cui, dice, è stato solo testimone… per niente? Lei, per niente, ha deciso di passare alla storia come l’autore di un delitto del genere?
«Perché che delitto è? So’ vigliacchi quelli che ammazzano o violentano i bambini. Era un uomo come ’n altro».
Anche la guida contromano era stata decisa a tavolino?
«Ho preso l’auto quando sono andati via. Lui rantolava, e io mi sono spaventato. Sono salito sulla sua macchina e sono scappato. Ma non ci sono passato sopra come dissero i poliziotti. Il corpo stava davanti, non dietro. E io feci retromarcia. Su Pasolini ci passarono loro. Poi mi fermai a una fontanella a sciacquarmi».
Loro chi erano?
«Erano anziani, non giovani».
Scusi… ma lei mi ha confermato che c’erano i fratelli Borsellino. E all’epoca avevano 15 e 13 anni...
Lo squillo del cellulare si sovrappone alla domanda: dall’altra parte c’è chi ci annulla un appuntamento preso per un’altra intervista. È un ex della destra eversiva che Pino Pelosi conosce bene. Si parlano e lo saluta con una risata goliardica. Lo chiama “Roscio”, poi restituisce il cellulare. Ma quella coincidenza strana e quel “Roscio” scavano pensieri e ipotesi.
Ma è il Roscio della Gilera?
Ritorna alla mente una testimonianza raccolta da un giornalista dell’Europeo e pubblicata in un articolo degli anni ’70: un ragazzo, scoperto dopo una lunga e paziente ricerca, raccontò di una motocicletta, una Gilera 124 di proprietà del “Roscio”. Non il Roscio della telefonata. I cronisti dell’Europeo pensarono a Giovanni Girlando, esponente della banda della Magliana nella zona Acilia Ostia, ucciso nel ’91. Certo, è un soprannome comune. E poi nessun “Roscio” è mai comparso negli incartamenti che riguardano il delitto Pasolini. È comparso invece di recente il nome di Antonio Pinna.
C’era anche Antonio Pinna?
«Mai detto niente di Pinna, io».
Ma lo conosceva?
«Sì».
E Giuseppe Mastino conosceva Pinna?
«Che ne so… non ne so niente. Chiedetelo a lui. O a Pinna, se lo trovi».
Il tono è scocciato. L’intervista è finita. So che “il Rana” non risponderà a nessun’altra domanda. Né potrà rispondermi Antonio Pinna, scomparso nel febbraio del 1976. Nello stesso mese e nello stesso anno in cui arrivarono le rivelazioni del carabiniere infiltrato. Le stesse che travolsero il processo a Pino Pelosi in corso davanti al tribunale per i minorenni presieduto da Carlo Alfredo Moro (fratello di Aldo Moro, eletto proprio nel 1976 presidente della Democrazia Cristiana).
Antonio Pinna, implicato nel sequestro di una farmacista e vicino alla banda dei Marsigliesi, nei giorni seguenti alla morte di Pier Paolo Pasolini si presentò da un carrozziere in zona Donna Olimpia con un’auto simile a quella dello scrittore ucciso, un’Alfa Romeo. Il carrozziere che si rifiutò di riparare l’auto, “urtata e sporca di fango”, oggi ha circa 70 anni e la procura lo ha sentito nell’aprile del 2010.
Pino Pelosi dice di non aver visto l’auto che sentì arrivare quella notte all’Idroscalo di Ostia. Dice di aver visto solo i due fari, accesi. Sul taccuino, senza risposta, resta l’ultima domanda: “Il suo amico Johnny ha mai portato un plantare al piede destro?”.
Perché fra i reperti del delitto Pasolini, oltre a un anello con una pietra rossa, con la scritta United States of Army, ci sono anche un maglione verde (non era di Pelosi né del poeta) e un plantare destro numero 41. Giuseppe Mastini, alias Johnny lo Zingaro, pare portasse proprio un plantare al piede destro in seguito a una ferita riportata dopo uno scontro a fuoco con la polizia. Pare. E all’epoca non fu disposta alcuna perizia. Né si è mai indagato su un possibile depistaggio politico. È certo che l’omicidio, commesso da un branco di disgraziati, a qualcuno tornò utile. A chi voleva screditare la voce più “pericolosa” tra gli intellettuali italiani. Pasolini non era solo un regista e uno scrittore, ma un giornalista che pensava a voce alta dalle prime pagine del Corriere della Sera: «Io so i nomi degli autori delle stragi»; e chiedeva «un Processo» per coloro che da trent’anni erano al governo del Paese. Forse può esserci stato un suggeritore a orientare il processo. Che potrebbe aver “usato” una falsa versione per infangare quell’IO SO di Pier Paolo Pasolini.
La “Rana” promette nuove verità, dice di aver scritto un libro, il secondo, sull’omicidio di Pasolini. Ancora in dubbio il titolo, e non è l’unico che resta aperto su questa vicenda.
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