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 2011  giugno 02 Giovedì calendario

MORTI PARALLELE


Walter Veltroni, quando ho cominciato a leggere il suo nuovo libro, “L’inizio del buio”, ho fatto un salto sulla sedia. Ho buona memoria, ma che alle sette di sera del 10 giugno 1981 Alfredino Rampi, 6 anni, cadde nel pozzo di Vermicino, vicino a Frascati, mentre, simultaneamente, Roberto Peci, 24 anni, antennista, fratello del terrorista pentito Patrizio, fu rapito dalle Brigate rosse a San Benedetto del Tronto, non me lo ricordavo proprio. Lei sì?
«Nemmeno io. Ero partito per scrivere la storia di Alfredino perché la sua voce che chiamava “Mamma” dal buco nero dove era precipitato mi era rimasta dentro. Dopo ho scoperto l’incredibile coincidenza con la storia di Peci».
Si dice sempre che una coincidenza non è mai soltanto una coincidenza.
«Se le piace il genere, gliene dico un’altra di coincidenza. C’è un filmetto americano degli anni Cinquanta che si intitola La bambina nel pozzo. La trama è la stessa della tragedia di Alfredino. La differenza è che nel film c’è l’happy end. A un certo punto in una scena appare un uomo con una tuta bianca sopra la quale c’è scritto “Alfred’s Auto Service”. Una cosa che mi ha fatto gelare il sangue».
La citazione cinematografica obbligatoria per la storia di Alfredino è “L’asso nella manica” di Billy Wilder dove una disgrazia diventa, grazie anche al cinismo giornalistico, uno spettacolo che attira le folle, come accadde appunto a Vermicino. Ma lei fa anche un riferimento storico, dice che la tragedia di Alfredino fu un’altra Caporetto.
«Probabilmente se avessero insistito, come avevano cominciato, lasciando che gli speleologi scendessero giù nel pozzo Alfredino si sarebbe potuto salvare. Ma poi cambiarono strategia, decisero di scavare il pozzo parallelo con una gigantesca trivella. Con le sue terribili vibrazioni la macchina provocò l’ulteriore discesa del bambino nel pozzo peggiorando irrimediabilmente le cose. La spiegazione che tutti mi hanno dato è che lo Stato in quel momento, malconcio per la pessima prova offerta durante il terremoto in Irpinia, doveva agire in prima persona e non poteva delegare a un gruppo di giovani speleologi, un po’ capelloni, un po’ alternativi, la soluzione del problema di Alfredino. E infatti gli speleologi furono pregati di farsi da parte».
Per ragion di Stato?
«Triste dirlo, ma è così. Il discorso in soldoni fu questo: “Dopo la sconfitta dell’Irpinia non possiamo permettere che le istituzioni non ci riescano e che ci riescano, invece, questi giovanotti con i capelli e le barbe lunghe”. Detto ciò, tutti quelli che erano a Vermicino diedero tutto quello che potevano dare, e anche di più, per salvare Alfredino».
Invece per quanto riguarda Roberto Peci, lei fa un altro riferimento storico e parla di una Salò delle Brigate rosse.
«La cosa spaventosa è la decomposizione dei terroristi. Ho intervistato il carceriere di Peci. Mi ha detto: “Quasi non ci ricordavamo più perché facevamo quello che facevamo. Ormai era una routine e non potevamo uscirne. Era finita ma come ne uscivamo? O ne uscivamo morti o ne uscivamo finendo in galera”. E quindi in un intreccio che mette assieme terroristi, mafia, camorra, servizi segreti, alla fine chi paga è un ragazzo di 24 anni, vittima da un lato di quello che aveva fatto il fratello e dall’altro di Giovanni Senzani, il professore ideologo delle bierre. Un tipo molto ambiguo che gestì la vicenda del rapimento Cirillo, i contatti con la camorra».
Cosa fa adesso Senzani?
«È libero, sta in Toscana, ha una libreria, credo. La figlia di Peci (che non ha mai conosciuto il padre perché è nata dopo la sua morte) gli ha scritto una lettera per chiedergli il perché di quella vendetta trasversale. Lui non ha mai risposto».
Roberto Peci sapeva di quanto stava accadendo a Vermicino?
«Ho avuto la stessa curiosità. Queste due storie si tengono in un modo strano. Ho chiesto al suo carceriere: “Ma Roberto sapeva di Vermicino?”. Mi ha risposto: “Guarda, non lo interrogavo io e non so se gli altri gliene hanno parlato”. Però, la sera, il sequestratore, che non era ancora in clandestinità, tornava a casa e, mi ha raccontato, la notte la passava a guardare in tv Vermicino».
Con scrupolo da cronista, lei ha incontrato trent’anni dopo tanti protagonisti di quelle due vicende.
«Ed è stato durissimo perché molti si sono messi a piangere. Come Angelo Licheri, che riuscì a raggiungere il bambino nel pozzo. Adesso gli hanno tagliato una gamba per il diabete e ha avuto altre tragedie. Licheri riuscì a prendere Alfredino tra le mani sette volte e per sette volte gli è scivolato via a causa del fango che lo ricopriva. È ancora disperato per questo. Mi ha detto: “Alfredino era incastrato lì come un tappo”. Licheri è rimasto per 45 minuti appeso a testa in giù nel pozzo. Gli esperti, gli speleologi, mi hanno assicurato che dopo venti minuti in quella posizione non capisci più niente anche se sei allenato, figurati se sei uno senza esperienza specifica. Secondo i pompieri se Licheri fosse arrivato 24 ore prima Alfredino lo avrebbero salvato».
Un altro eroe fu il vigile del fuoco Nando.
«Parlò per tutto il tempo con il bambino. Gli raccontò che la trivella, con la quale si stava scavando il pozzo parallelo per andare a prenderlo, era in realtà il robot Mazinga, eroe amatissimo da Alfredino».
Eppure in questa storia ci sono anche momenti da commedia all’italiana. Il tecnico di madrelingua greca che smette di parlare in italiano e si mette a parlare in greco quando capisce, al principio di tutto, che la situazione è difficile. O il tipo al quale telefonano in piena notte per chiedergli se ha una gru e che manda tutti a quel paese e riattacca.
«Non c’erano telefonini, non c’era internet, non c’era Google, non c’erano e-mail e perciò, ai nostri occhi di gente abituata a tanta e sofisticata tecnologia, i collegamenti di allora appaiono rudimentali, affannati, complicati, lenti. I soccorritori avevano un solo telefono installato col filo volante».
Il suo libro ha un doppio livello. Quello della ricostruzione a orologeria, minuto per minuto, in un incalzante montaggio parallelo, delle due storie. E quello del significato simbolico delle due storie stesse. Questo significato simbolico ha a che fare con la televisione.
«La telecamera diventa la protagonista di queste due storie. Tutta la storia di Vermicino, una diretta che dura praticamente tre giorni, è stata fatta con una unica telecamera che filmava l’ingresso del pozzo e la gente assiepata intorno in una confusione indescrivibile. In realtà, non succedeva nulla. È l’antitelevisione. La negazione di ogni stilema classico televisivo perché tutto accade in un luogo invisibile agli occhi. E la stessa cosa è successa per Roberto Peci. Lui si trova rinchiuso in una casa in via della Stazione di Tor Sapienza, alla periferia di Roma, sta sotto una tenda, con le cuffie che sparano musica a tutto volume nelle orecchie, e il resto dell’arredamento è fatto di una brandina e un bagno chimico. Lì dentro gli arriva una telecamera, anche qui una sola, che lo interroga. È la prima volta che le bierre passano dalla fotografia, dalla polaroid, alla ripresa televisiva per documentare le loro imprese. Il regista della trasmissione è Senzani e fu sempre lui a voler scattare la foto finale dell’esecuzione di Peci. Una immagine terribile».
Lei scrive che sono i primi due reality nella storia televisiva e che quei giorni sono quelli in cui la televisione ha perso la sua innocenza.
«È la prima volta che la tv irrompe nella vita di una persona che non ha nessun motivo per stare sotto gli occhi della televisione. Alfredino non è un attore, non è un calciatore, non è nulla, è un bambino. La tv entra nella vita di questo bambino e non si ferma davanti a niente. Noi eravamo stati abituati a una televisione in cui la realtà era il telegiornale, il resto era tutto racconto di fantasia».
E certi argomenti potevi trattarli solo come fiction perché c’era il pudore davanti ai grandi dolori privati.
«Qui, invece, salta tutto. In 18 ore, il tempo della diretta non stop, si destruttura il codice di lettura della comunicazione di generazioni intere. C’è una struttura narrativa che assomiglia a quella classica e che però a un certo punto è avvelenata e stravolge tutto il resto non prevedendo l’happy end (quell’happy end che era dato per scontato tanto che il presidente Pertini si recò sul posto quando si pensava che fosse imminente). Succedono cose mai viste. Quando il corpo di Alfredino viene portato al cimitero c’è una folla che vuole vederlo e una signora, dato che non glielo permettono, comincia a protestare: «Ho seguito tutta la diretta, sono venuta fin qui in taxi, se non me lo fate vedere allora mi dovete dare il rimborso della corsa».
Lì comincia il nostro tempo?
«Sì, lì siamo già arrivati ad Azouz, a Corona, ad Avetrana. Agli agenti che organizzano le serate-spettacolo per i protagonisti della cronaca più efferata. Quel mondo lì è cominciato purtroppo attorno al pozzo di Alfredino dove la tv ha rotto ogni codice e si è messa a entrare dappertutto. Eppure, in quella stessa vicenda, ci fu una persona straordinaria come Franca Rampi, la mamma di Alfredino. Quante cose avrebbe potuto dire, e a ragione, dell’imperizia dello Stato. Avrebbe potuto diventare una presenza fissa del palinsesto, urlare, puntare il dito. Invece si è sopportata il suo dolore di madre in silenzio. Ha rifiutato lo stereotipo della madre disperata, non si è buttata per terra, non ha pianto in pubblico, ha solo tentato di salvare il suo bambino».
E il reality di Roberto Peci?
«Lì è accaduto qualcosa di ancora più impensabile. Le bierre trasformarono Roberto in un attore. Nel corso degli interrogatori lo convinsero, se si voleva salvare, a sposare la loro versione dei fatti sul tradimento del fratello. Lui piano piano imparò il copione e lo recitò. La scena finale del video dice tutto. Le bierre annunciano la fine del processo e la sua condanna a morte. Peci mostra segni di smarrimento, di sgomento. Ma non è una scena vera, è preparata. Prima di girarla, gli avevano detto, mentendo, che se fosse stato convincente in quel ciak di disperazione avrebbe aumentato le possibilità, scioccando il pubblico, di essere salvato. Il carceriere mi ha detto che alla fine della ripresa, Peci si rivolse ai suoi aguzzini e domandò: “Sono andato bene?”».
Antonio D’Orrico