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 2011  giugno 09 Giovedì calendario

LA DONNA PIU’ POTENTE D’AMERICA LASCIA DOPO 25 ANNI LA TV PER DIVENTARE LA REGINA DI INTERNET


Oprah Winfrey non ce l’ha fatta a dire la parola addio nell’ultima puntata del suo show, ha detto soltanto «fino alla prossima volta in cui ci vedremo» per esplicitare un concetto ricorrente nella sua carriera: nella fine c’è sempre un inizio. In quello che il New York Times ha definito un discorso «a metà fra una discussione di laurea e un sermone domenicale» la celebre anchorwoman si è lasciata andare a confidenze con i 13,3 milioni di intimi che si sono incollati alla tv armati di junk food e fazzoletti e ha parlato persino di Dio: «Parlo dell’alfa e dell’omega. L’onnisciente, onnipresente, la coscienza ultima, la fonte, la forza, il tutto di ogni cosa che esiste, l’unico e solo D-i-o».
Sembra strano sentire qualcuno parlare di Dio con le labbra tremanti in diretta televisiva (fatta eccezione per la nicchia dei telepredicatori on demand), ma l’iperbole religiosa è l’essenza stessa di Oprah, che è contemporaneamente intrattenitrice e sacerdotessa, pilastro dello show business e amministratrice di un culto fatto di miseria e riscatto. Il tocco divino, del resto, è già nel nome della bambina nata in Mississippi da una teenager abbandonata dopo una notte: il suo nome originale era Oprah, come un personaggio biblico citato nel libro di Ruth, ma i familiari trovavano che fosse troppo difficile da pronunciare e lo hanno convenite in Oprah.
Nei 25 anni dell’Oproh Winfrey show ha intervistato oltre 30 mila ospiti, da Michael Jackson a Barack Obama, passando per migliala di storie sconosciute accomunate dal principio del riscatto, dalla speranza contro ogni speranza, da un sogno americano in versione teologica che è la rappresentazione su scala mondiale della storia del suo successo.
Oprah ha conosciuto la povertà sotto molteplici forme. Nei primi anni di vita, passati con la nonna nelle campagne del Mississippi, portava abiti ricavati dai sacchi delle patate, l’unica stoffa che in casa si potessero permettere. È in quel periodo però che mostra un talento precoce: a tre anni sa già leggere e la comunità che si raccoglie attorno alla chiesa la chiama «la predicatrice» per la sua abilità nel recitare i versi biblici. Assieme alla madre e a quello che crede essere il suo padre biologico si trasferisce a Milwaukee, dove le sofferenze però sono tutt’altro che finite.
A nove anni viene molestata dal cugino, dallo zio e da un amico di famiglia, dramma che finisce soltanto quando a 13 anni Oprah scappa di casa. Un anno più tardi rimane incinta e partorisce un bambino che muore poco dopo la nasata: storia che i familiari hanno raccontato a sua insaputa al National Enquirerr nel 1990, quando Oprah era già una star della televisione. Poi il trasloco a Nashville, le prime esperienze in televisione e radio a Baltimora, infine la grande avventura di Chicago, città di spettacolo e potere che diventa per lei casa e palcoscenico. Il suo successo, la sua immagine ispiratrice, la sua capacità di canalizzare i flussi dell’interesse popolare sono maturati nel terreno del dolore e dell’indigenza, temi che si sono affermati come il vessillo del suo show nel corso del tempo. Non senza controversie. Nel saggio Oprah Winfrey and the Glamour of Misery la sociologa Eva Illouz ha scritto che, «trasformando le esperienze di sofferenza in occasioni permigliorarsi, Oprah ha finito per avallare l’idea assurda che la sofferenza sia una cosa desiderabile».
La costruzione dello show che si è chiuso la settimana scorsa è interamente basata sul concetto di empatia, sulla partecipazione del pubblico al dramma umano messo in scena e sull’espiazione finale incarnata dalla stessa storia personale dell’anchorwoman.
La poetica del confessionale televisivo è parte di un genere inventato in America da Phil Donahue, famoso conduttore di uno show che ha penato per la prima volta nelle case dei telespettatori temi divisivi che il linguaggio ipercorretto della televisione precedente non poteva ammettere. Oprah ha preso questo materiale ancora grezzo e ci ha costruito un prodotto mediatico che unisce la star di Hollywood all’uomo della strada, il salotto intellettuale alla periferia difficile.
Davanti allo show di Oprah si versano lacrime molto glamour e si ha l’impressione che questa eroina self made unisca razze e classi sociali altrimenti lontane e nemiche. Il successo del suo programma è soltanto una parte dell’operazione che l’ha resa una leggenda. Oprah è probabilmente il marchio più potente che esista in America, anche più di quello di Obama durante la grande campagna elettorale del 2008. In quel periodo era il candidato democratico a cercare il sostegno della commentatrice, e non viceversa. Con un affare in cui guadagnano tutti Oprah e Obama hanno stabilito un’alleanza ideale in cui le loro immagini si illuminavano a vicenda, avvicinando establishment e cultura popolare, media e politica.
Una ricerca del Dipartimento di economia dell’Università del Maryland dice che l’endorsement di Oprah ha fatto guadagnare a Obama 1.015.559 voti. È soltanto un esempio di quello che economisti e sociologi dei media chiamano l’effetto Oprah. La sua sezione dedicata ai libri, inaugurata 15 anni fa, ha completamente sconvolto il mercato editoriale americano. Libri sconosciuti hanno scalato le classifiche soltanto dopo che lei ne ha parlato in diretta, e copie di grandi classici con vendite relativamente basse sono improvvisamente comparse negli scaffali dei best-seller del momento. A New Earth di Eckhart Tolle è stato presentato da Qprah nel 2008, tre anni dopo un’uscita in librerìa che non aveva dato risultati esaltanti. Dopo essere stato selezionato nel suo Book club ha venduto 3,5 milioni di copie in un mese, arrivando in cima alla classifica di Amazon.
Facile intuire che la massima ambizione di un editore fosse quella che una sua copertina fosse mostrata anche soltanto per 5 secondi durante il Book club di Oprah, certo che le vendite sarebbero schizzate in alto nel giro di poche ore. Essere recensiti significava ricevere premi, entrare nell’establishment ed essere riconosciuti a livello popolare. Nel libro Reading With Oprah: The book Club that Changed America, Kathleen Rooney le attribuisce il merito di avere rilanciato la lettura a livello popolare: «Oprah Winfrey è l’intellettuale americana che per prima ha usato i media elettronici, la televisione e internet per considerare la lettura un atto individuale e non tecnologico e valorizzarne gli dementi sociali in un modo tale da convincere milioni di non lettori a prendere in mano un libro».
Per non parlare di quanto il marchio Oprah influenza il botteghino. Quando Tom Cruise s’è presentato ubriaco nel suo studio facendo il famoso salto sul divano, ed è riuscito a fatica a mettere in fila qualche parola dotata di senso fra una risata e l’altra, Mission Impossible III ha deluso in termini di incassi rispetto alle aspettative. E Cruise non ha invitato Oprah al suo matrimonio.
È una specie di azienda di pubbliche relazioni su scala planetaria, una trendsetter universale che sposta vendite e simpatie con una piattaforma multistrato che va dalla televisione al web fino al The Oprah magazine, periodico patinato in cui lei compare in copertina su tutti i numeri. In politica è stata spesso accusata di fare domande accomodanti ai suoi amia democratici, di ringhiare con qualche sparuto repubblicano e di non invitare tutti gli altri. Oprah sa che quella considerazione è un riconoscimento che non tutti possono permettersi. Si dice che l’ex governatore dell’Illinois Rod Blagojevich (accusato di avere tentato di vendere il seggio del Senato che fu di Obama) abbia pensato di offrire il posto a lei, perché era una «voce più influente di tutti e cento i senatori messi insieme».
Con la fine dell’Oprah Winfrey show quella voce non si è spenta, ha solo deciso di rimbombare in nuova cassa di risonanza, la rete. Sulla sua piattaforma Own (Oprah Winfrey Network) ci saranno ancora interviste, commenti, show, intrattenimento; saranno la sofferenza, il riscatto, le lacrime, e tutto quello che lei ha mostrato all’America in 25 anni. La rete dirà se il suo marchio è abbastanza forte da entrare nel far west di internet e fare anche lì la parte dello sceriffo.
Mattia Ferraresi