Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  giugno 03 Venerdì calendario

LA PROTESTA DELLA MOGLIE PRONTA A STACARE LA SPINA —

La Madonna della Sciara bloccò la lava dell’Etna, ma non ha ancora fatto il miracolo per salvare l’architetto che, come dono per grazia ricevuta, stava restaurando il suo santuario sulle pendici del vulcano, a due passi da Trecastagni, proprio dove lui s’innamorò di una bella aspirante giornalista che lo intervistava e dove insieme tornarono l’anno dopo per sposarsi. Adesso nessuno usa più il suo tavolo da disegno e vegeta in coma da un anno Giuseppe Marletta, 43 anni, vittima di una banale operazione andata male, l’estrazione di due punti metallici dalla radice di un dente già estirpato. «Venti minuti di anestesia e torna a casa, dicevano gli "assassini"...”, come evoca e tuona la moglie, Irene Sampognaro, senza più preghiere per la Madonna dell’Etna ma con una miscela di dolore e rabbia rovesciata su medici e magistrati ancora muti dopo la denuncia, l’inchiesta, le perizie dell’anno scorso. Per questo mercoledì, nel giorno del primo anniversario della tragedia, s’è piazzata con i cartelloni, fra parenti e amici, davanti all’ospedale Garibaldi di Catania invocando giustizia e assistenza per il suo Giuseppe, aiuti al ministero della Salute e alla Regione per tentare di risvegliare «anche all’estero» quest’omone di un metro e ottanta, campione di karate, sempre in corsa sulla sua moto per passare da un cantiere all’altro arrampicandosi sui tetti come uno scattante manovale. Eccola Irene, alta e bruna, un foulard, la voce roca, davanti al piccolo di 5 anni e alla bimba nata due mesi prima del maledetto intervento: «Ci ignorano, come se nulla fosse mai accaduto. Ma non mi rassegno e se non si muoveranno per fare giustizia e salvare mio marito. emulerò Beppino Englaro, pronta a staccare la spina... Io non posso accettare che viva per vent’anni come Eluana. So che c’è uno scienziato che fa studi in Israele. È una chance» . Eccola implacabile nella richiesta di un provvedimento atteso dalla procura della Repubblica, l’ufficio frequentato quando andava a trovare il padre cancelliere, oggi in pensione, ormai dedito ai due nipotini senza papà: «Che combinano? Non posso accettare l’idea che non ci sia un reato. C’è un uomo quasi morto. Ecco il reato, compiuto per una distrazione in sala operatoria, per 7 minuti di blocco cardiaco, per l’incapacità di fare arrivare subito ossigeno al cervello. E se c’è il reato, occorre il provvedimento giudiziario. A chi uccide si dà l’ergastolo. La condizione di mio marito. è peggio della morte. Non dico che cosa io farei a questi signori. Io sto solo cercando di elaborare un lutto senza aver fatto un funerale...» . Non parlatele di «immagine» dell’ospedale come ha azzardato qualche sprovveduto burocrate. «E chi se ne frega dell’immagine davanti all’interesse dell’intera comunità di avere medici che non t’ammazzano?» . Invettive, denunce e quesiti rotolano con le parole rauche di questa mancata cronista poi arruolatasi alle elementari come insegnante. La serenità di un tempo sovrastata dal ruolo di una combattente tenace che vorrebbe gridare i nomi dei medici indagati ai quali, al di là di ogni futuro verdetto, attribuisce la fine dei suoi sogni. Cominciati davanti alla vecchia cappella della Sciara, sulla strada per Trecastagni, dove il parroco aveva ben accolto l’offerta del devoto architetto pronto a rifare il santuario con una aerea costruzione in legno. Storia di dieci anni fa, quando Irene con la telecamera di una piccola tv privata intervistò l’architetto: «Fui io a cercarlo subito dopo perché i miei genitori dovevano ristrutturare una casa nel centro storico di Catania, in via Pantano. Una settimana dopo affittò uno studio a venti metri, stessa strada. E un anno dopo abitavamo già lì. La casa piena di suoi regali. Lo studio zeppo di collaboratori. Oggi tutto vuoto. Studio chiuso. Casa abbandonata. Non potevo più stare da sola con due bambini in una casa dove ogni cosa parlava di mio marito. Mi arrivano le parcelle di chi collaborava con lui. Il mio stipendio non basta. Enti e comuni non pagano i progetti forzatamente sospesi. Vita distrutta. Perdoni per la voce tirata...» . E si scusa perché il disastro le ha scatenato un tumore alla tiroide: «Operata tre settimane fa. Mi dicono che non ci sono metastasi» . E sfiora con le dita il foulard, guardando i bimbi che non vorrebbe lasciare senza giustizia, decisa a combattere, ma anche ad arrendersi davanti a quella spina.
Felice Cavallaro