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 2011  giugno 03 Venerdì calendario

I DICIASSETTE SCAFI DELLA FLOTTA DEI DISPERATI

Sulle mappe degli scafisti è tracciata una nuova rotta ad angolo retto. Una linea che comincia dal porto libico di Zuwarah, piega nelle acque territoriali tunisine, doppiando il promontorio di Zarzis e Djerba, si allunga verso le isole di Kerkennah e da lì prosegue fino al capo di Teboulba. A quel punto la direzione scarta di novanta gradi e punta verso Lampedusa. È la risposta dei clan para-mafiosi all’accordo sul «contenimento dei flussi» , firmato da Italia e Tunisia il 6 aprile 2011. Certo, i rischi si sono moltiplicati rispetto solo a pochi mesi fa. E quando si parla di mare, «rischi» significa morti annegati. I quasi trecento profughi dispersi davanti al piccolo arcipelago di Kerkennah andranno messi in conto, riferiscono da Tunisi fonti attendibili, a un boss locale, proprietario di una flottiglia di 17 pescherecci. Uno peggio dell’altro, sia chiaro. Infami bagnarole, in grado di fare a malapena la spola tra le banchine e le reti per le sardine e i calamari, disposte a tre-quattro chilometri dalla costa. Ma non certo per affrontare, stracariche come vagoni della metropolitana nell’ora di punta, i 100-120 chilometri che separano l’ultimo promontorio della Tunisia da Lampedusa (il lato più insidioso dell’angolo retto). Ma di tutto ciò ai trafficanti tunisini non importa nulla. Le loro mosse, spiace dirlo, sono razionalmente criminali, perché tengono conto, per così dire, delle variabili politiche e delle conseguenze economiche. E allora i dispersi, gli annegati vengono contabilizzati alla voce «incidenti di percorso» , in qualche modo preventivati. È il business dell’immigrazione clandestina valutato almeno 30 milioni di euro, ripartito in grande stile con il rovesciamento del regime di Ben Alì (14 gennaio 2011) e che ha vissuto (e vive) continui aggiustamenti. Da un mese a questa parte la rotta principale, Zarsis-Lampedusa, è in netto ribasso. Non che nel porto e sulle spiagge vicine ai grandi alberghi tutto sia ritornato alla normalità. Ma i controlli in mare della guardia costiera e il pattugliamento di gendarmeria ed esercito lungo la battigia stanno contenendo gli imbarchi. Da qui, nel mese di maggio, sarebbero partiti circa 150-200 migranti, quando tra febbraio e marzo saltavano sulle barche in 400-500 quasi ogni notte. La pressione delle autorità italiane, rappresentate a Tunisi dall’ambasciatore Piero Benassi, comincia a dare qualche risultato, almeno a Zarzis. Poche settimane fa, a Civitavecchia, il governo italiano ha consegnato 4 motovedette alla marina tunisina, oltre a diversi motori marini e a una ventina di jeep per il fuoristrada. Non è tutto quello che è previsto negli accordi. Ma è un inizio. In cambio l’esecutivo provvisorio tunisino, una volta allentata l’attenzione di tv e giornali locali in tutt’altro affacendati (la data delle elezioni, il dibattito sulla costituzione), ha rallentato la cadenza dei rimpatri dall’Italia. Ora si procede con qualche volo alla settimana, e non tutti i giorni come piacerebbe a Roma, per un totale di 100-150 immigrati riportati indietro ogni sette giorni. Per i clan tunisini, indubbiamente, le cose si sono complicate. Come stanno rispondendo? La tragedia di ieri e gli sbarchi delle ultime settimane a Lampedusa mostrano in controluce una nuova strategia. Innanzitutto i trafficanti, riprese in mano le carte nautiche, hanno riaperto il corridoio Zuwarah Lampedusa, cancellato dall’accordo Gheddafi-Berlusconi del 2008. Poi hanno rispolverato le vecchie alleanze con i criminali libici d’oltreconfine, ormai sfuggiti al controllo di Tripoli. E così sono risbucati i barconi. Certo, la «clientela» è cambiata. Meno giovani tunisini, scoraggiati dal rientro coatto dei coetanei dall’Italia, più centroafricani, nati in Mali, Chad, Niger, Sudan, Nigeria, Ghana. La maggior parte di loro costituiva il nerbo della forza lavoro del Colonnello e sono in fuga ormai da mesi. Tanti, circa 60 mila secondo la stima di un’organizzazione seria come «Medici senza frontiere» , hanno puntato verso Sud, cercando di tornare a casa attraversando il deserto del Niger. Altre migliaia sono state spinte verso il porto di Zuwarah, dove trovano a riceverli scafisti libici e battelli tunisini (o anche il contrario). Finora ce l’hanno fatta in 11 mila, raggiungendo Lampedusa con due varianti: traversata diretta, con eventuale deviazione verso Malta, se lo scafo sembra in condizioni di reggere; oppure, se il battello è malandato, navigazione sotto costa, beffando tranquillamente l’unica fregata militare tunisina schierata sulla verticale di Zarzis. Ma non sempre sfuggendo alla morte. C’è dell’altro. O meglio, ci sarebbe un’altra pista da tenere sotto osservazione, che porta a quella specie di palude sabbiosa che è diventato il campo profughi di Choucha, al confine tra Libia e Tunisia. Da marzo, ormai, circa 4.000 rifugiati sono inchiodati nelle tende bianche delle Nazioni Unite. Anche loro sono quasi tutti africani (soprattutto somali, eritrei e sudanesi), abbandonati dai loro governi e, di fatto, dimenticati dall’opinione pubblica e dagli Stati occidentali. Nessuno riesce a riportarli a casa: l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), nonostante i ripetuti appelli alla comunità internazionale, finora ha raccolto 48 milioni di dollari, ma per fronteggiare l’emergenza ne servirebbero 80. Risultato: i soldi non bastano per pagare il volo a tutti. Senza contare che chi riesce a salire su un aereo viene subito rimpiazzato dai nuovi in arrivo dal valico di frontiera a Ras Jedir. Tre mesi di notti passate con altre nove persone in una tenda quattro metri per cinque (due metri quadri a testa) può spingere a scelte disperate. E così negli ultimi giorni a Choucha ci sono stati gravi scontri (con almeno due morti) e sono cominciate ad arrivare voci (e anche qualche testimonianza) inquietanti. A decine, se non a centinaia, i profughi fuggirebbero dal campo e si affiderebbero ai contrabbandieri di benzina per farsi riportare in Libia. Verso la costa, verso i barconi per Lampedusa, dove li accolgono (spogliandoli anche delle ultime misere cose) gli scafisti. Intraprendenti e dinamici sciacalli.
Giuseppe Sarcina