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 2011  giugno 02 Giovedì calendario

COME LO STATO E LA CHIESA DECISERO DI RICONCILIARSI

Ho letto che dal diario del barone Carlo Monti, incaricato d’affari del governo italiano presso la Santa Sede dal 1914 al 1922, emergerebbe che il Papa Benedetto XV già da allora aveva manifestato la volontà di riappacificarsi con lo Stato italiano. Il rancore di Pio IX per la perdita del potere temporale era del tutto superato. Perché lo Stato liberale prefascista non seppe cogliere l’occasione lasciando che in un tempo successivo Mussolini assumesse il ruolo di «uomo della provvidenza» ?
Antonio Fadda
antoniofadda2@virgilio. it

Caro Fadda, il barone Carlo Monti non fu l’ «incaricato d’affari del governo italiano presso la Santa Sede» . Fu direttore del Fondo per il Culto, un istituto alle dipendenze del nostro ministero della Giustizia, creato dopo la soppressione delle congregazioni religiose. Ma aveva conosciuto Giacomo Della Chiesa all’Università di Genova, dove erano entrambi studenti, e non appena questi fu eletto al soglio con il nome di Benedetto XV (1914), divenne un tramite (ve ne furono altri) per i rapporti informali tra la Santa Sede e lo Stato italiano. Dai suoi diari, oggi depositati nell’archivio segreto del Vaticano, risulta che il Papa, nei sette anni del suo pontificato, gli avrebbe dato 175 udienze. Non fu Monti, comunque, l’uomo di cui la Chiesa si servì quando volle far sapere al governo italiano che era pronta a parlare di conciliazione. Il primo contatto ebbe luogo a Parigi, nella primavera del 1919, mentre gli Alleati discutevano le clausole dei trattati di pace con i Paesi sconfitti. Un prelato americano avvicinò un diplomatico, Giuseppe Brambilla, che faceva parte della delegazione italiana, e gli chiese di trasmettere un messaggio al presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando: avrebbe accettato di ricevere un delegato del cardinale Gasparri, segretario di Stato? Orlando accettò e l’incontro segreto con monsignor Bonaventura Ceretti, inviato dalla Santa Sede, ebbe luogo all’Hotel Ritz di Parigi il 1 ° giugno 1919. Non parlarono di clausole finanziarie, ma di sovranità. Ciò che maggiormente interessava la Chiesa romana era la proprietà di un territorio che comprendesse almeno il recinto vaticano e potesse definirsi Stato, con tutti gli effetti giuridici che tale qualità comporta. Le ragioni dell’apertura andavano cercate nella guerra appena conclusa. Il conflitto aveva straordinariamente rafforzato lo Stato italiano e smentito l’illusoria speranza che l’unità nazionale fosse una creazione effimera, destinata a infrangersi contro gli scogli della politica internazionale. La Santa Sede, inoltre, aveva perduto un prezioso protettore, l’impero austro-ungarico. E aveva infine constatato quanto fosse difficile sopravvivere ed esercitare la propria missione se il vertice dell’istituzione è circondato da potenze che si combattono e non gode di altra garanzia fuor che la benevolenza dei suoi vicini. Le trattative sarebbero cominciate nei mesi seguenti, probabilmente, se Orlando non si fosse dimesso a causa della questione di Fiume e se i suoi successori (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta) non avessero dovuto amministrare un Paese sconvolto dagli scioperi, dai conati rivoluzionari, dalla rapida ascesa del fenomeno fascista. Per riprendere i contatti e avviare i negoziati fu necessario attendere un nuovo Papa, Pio XI, e un nuovo presidente del Consiglio, Benito Mussolini. E ciascuno dei due dovette superare le resistenze di quanti, in campo cattolico e in campo italiano, erano contrari alla firma di un trattato con il vecchio nemico. Fra coloro che avrebbero preferito lasciare le cose com’erano vi era anche Vittorio Emanuele, molto più laico dell’uomo a cui, il 28 ottobre 1922, aveva dato l’incarico di governare l’Italia.
Sergio Romano